La Spagna continua a guardarsi indietro, mitizzando l’età dell’oro del granitico bipartitismo iberico, quando trenta minuti dopo la chiusura delle urne era già chiaro chi avesse vinto e chi no. Dopo le proteste degli Indignados, confluito nel primo partito populista Podemos, seguito due anni dopo da Ciudadanos, più anziano di formazione, ma sempre sotto lo sbarramento, la democracía nata nel 1978, ha visto soltanto ingovernabilità, instabilità  e sovente, molti tentativi di disgregazione dell’unità nazionale con le spinte delle forze centripete catalane e basche. Uno, due, tre…e forse anche quattro tentativi di formare un esecutivo che potesse camminare con le sue gambe, che potesse decidere alleanze stabili e non litigiose per assecondare quella costante, anche se ridotta, crescita economica che benedice la Piel de Toro dal 2016. Niente da fare. O non c’erano i presupposti o i numeri di maggioranza, o non c’era la volontà, come è parso al 47 per cento degli spagnoli che secondo un sondaggio nazionale dell’Istat spagnolo ha dato la colpa di inefficienza proprio al premier uscente e facente funzioni (incaricato dal re Felipe VI a giugno e ad agosto) di non aver avuto la volontà di mettere in piedi, seppur traballante, un esecutivo di maggioranza semplice, e un esecutivo un po’ più stabile col sostegno di Podemos. Ed è evidente che ai politici spagnoli manchi il talento italiano e  la capacità di formare alleanze per governare.  In quarant’anni di storia costituzionale a Madrid non si è mai visto un esecutivo di coalizione. E chissà se si vedrà chiaramente dopo il prossimo 10 novembre.

Così il prossimo 10 novembre, per la quarta volta in cinque anni, le urne chiameranno al voto 26 milioni di spagnoli su un totale di quasi cinquanta. E mentre gli analisti avvertono che a questo quarto tentativo si farà sentire molto l’astensionismo, re Felipe VI accetta amaramente di vedere il destino incerto di un Paese e di una classe politica che lui stesso ha visto essere incapace di trovare un banalissimo accordo che funzionasse per  arrivare almeno alla prima legislazione completa del dopo Indignados e senza crisi.

E nel caos politico a nessun è venuto in mente che per non rimanere impantanati in quello stagno di sabbie mobili che è diventata la politica di Madrid, basterebbe pensare di modificare la legge elettorale. Con un bel maggioritario. Speranza che Sánchez nutre da anni, ma per cui non trova né le alleanze né il tempo. Tempo che sta per scadere. Le ultime elezioni sono state il 26 aprile, nei successivi settanta giorni affollati di lunghissime disquisizioni e trattative tra i Socialisti vincitori e gli alleati Podemos nulla di buono è venuto a galla e a fino a luglio Sánchez ha indossato nuovamente  l’investitura di premier facente funzioni data dal re per poi restituirla e riprendersela fino a oggi, 18 settembre, quando il limite costituzionale per farsi eleggere dal Congresso premier e inventarsi un esecutivo è davvero al limite. Lo stesso re Felipe Vi ha perso ogni certezza e già ieri sera in via non ufficiale, parlava di tentativi finiti e, quindi, si va alle elezioni. Potrebbe funzionare la data del 10 novembre, prima anticipata e poi accettata. È probabile che per quella data sarà già stato letto il verdetto di colpevolezza o innocenza del maxiprocesso ai politici ribelli catalani accusati, tra le varie cause, di disobbedienza. Quindi, a seguito della decisione del Tribunale Supremo, la Spagna sarà divisa e turbata e la Catalogna a un secondo dall’esplosione di nuove rivolte. In tutto questo c’è sempre il rischio, anche dopo la quarta tornata elettorale, di trovarsi al punto di prima: i Socialisti vincenti, i Popolari in calo, Vox in salita, Podemos in calo e nessuna alleanza buona per governare. Punto e non a capo.