La Riforma Franceschini per i Beni Culturali è un flop senza precedenti. Rivolta al Ministero. Gli storici dell’arte la definiscono una macelleria che confonde cultura ed economia.
E siamo ancora qui, a scrivere di questa benedetta riforma dei Beni Culturali portata avanti dal Ministro Franceschini che non passa. Non passa non solo al Senato, dopo essere stata pienamente approvata alla Camera senza nemmeno un voto contrario, ma non passa nella mente del primo Ministro Renzi, alla faccia del suo precetto che, in questi mesi di governo, è stato un “Fare riforme ad ogni costo”. Questa invece no. Perché? La versione più accreditata, già dal Corriere
della Sera negli scorsi giorni, evidenzia due motivi. Il primo: Franceschini avrebbe redatto la riforma in totale autonomia di fondo, e per la verità il documento di 44 pagine e 36 articoli, era stato iniziato negli uffici di via del Collegio Romano subito l’insediamento del Ministro, dopo la fine del governo di Enrico Letta. Renzi non
sarebbe stato informato dei punti principali, arrivando così alla “censura” della riforma. Vanno bene i tagli e gli accorpamenti alle Soprintendenze, ma lo scontro è sui poteri, rimasti invariati, proprio delle Soprintendenze ai Beni architettonici, che il Premier aveva definito «un potere
monocratico che non risponde a nessuno, ma passa sopra a chi è eletto dai cittadini». Questi in sostanza i retroscena di un’azione che però l’ormai l’ex Rottamatore non ha rivendicato. E di cui nemmeno Franceschini, orgoglioso per il passaggio alla Camera del testo nemmeno più di dieci giorni fa, ha proferito parola. Slittare a settembre non sarebbe un grave problema, dopo tutti gli anni di immobilismo in cui si è affondati nel pantano. Il problema è slittare e basta, con la revisione di questa riforma (definita dal direttore del Musei Vaticani Antonio Paolucci «Una macelleria che confonde cultura ed economia») che porterebbe a un annullamento dei suoi punti fondamentali. Rendendola, insomma, inefficace rispetto a quanto programmato. Poi a latere, come sappiamo, ci sono i malumori “locali”: le Soprintendenze sono sul piede di guerra, e alcuni poli museali (Torino e Mantova) chiedono di entrare nella rosa dei musei autonomi. Insomma, non si muove foglia che un intero settore non sotterri l’ascia di guerra a rimarcare le proprie condizioni di appartenenza, come dogmi inviolabili. Poi c’è l’autonomia dei musei, e anche di questo vi abbiamo raccontato, perché da Torino a Mantova, e sicuramente in futuro qualcun altro chiederà la grazia, se la riforma passerà, ci sono diversi poli e istituzioni che hanno richiesto la tanta sospirata “indipendenza”. c’è anche la più grande categoria di “controllo” dei lavoratori, i sindacati, che lanciano un nuovo anatema: lo stato è incapace di gestire i propri beni e quindi chiede l’aiuto ai privati. E pare che per le associazioni sindacali si sia nel bel mezzo di un nuovo delitto: “La Beni Culturali spa, un maxi appalto da mezzo miliardo del Ministero del Tesoro per far si che i privati gestiranno i musei e i monumenti, l’ibrido tra il pubblico e il privato è ormai cosa fatta: è questo il modo per creare tutti i presupposti per avviare il completamento della privatizzazione del settore dei
Beni Culturali, e dimostra che lo Stato italiano rinuncia deliberatamente ai propri compiti istituzionali nel settore della cultura”, si legge in una nota. L’argomento incriminato, insomma, è il maxibando che il Ministro dell’Economia e Finanza Pier Carlo Padoan, sta mettendo a punto per una gara del valore di mezzo miliardo di euro per appaltare ai privati i “servizi di gestione integrata e valorizzazione dei luoghi di cultura”. Questa novità dovrebbe partire dal prossimo ottobre e coinvolgerebbe operatori di tutti i tipi lavoranti nei servizi dei Beni del Paese. Quel che non si capisce più è dove stia il rimprovero: in tutti i modi si è detto e ridetto che dal Ministero non pioverà più un euro, e se non subentreranno i privati c’è il caso, più che plausibile, che un intero settore vada a rotoli. Eppure sembra davvero che qui, Franceschini, abbia toccato troppi nervi scoperti. Proprio partendo dalla sua città, Firenze, dove il
Premier ha incontrato negli scorsi giorni Cristina Acidini, soprintendente al
Polo museale, e molto vicina a lui; Antonio Natali, direttore degli Uffizi e
Alessandra Marino, soprintendente ai Beni architettonici di Firenze, Prato e
Pistoia. Con l’introduzione, nella normativa, della figura di un direttore-manager per i primi venti grandi musei (dagli Uffizi a Brera, da Caserta alle Gallerie dell’Accademia di Venezia), scelto con concorso e non a chiamata diretta, si sfilerebbe proprio alla Acidini un circuito che conta 26 istituzioni, per un fatturato di oltre 20 milioni l’anno. Eliminando, insomma, una figura decisamente chiave per la cultura in città. Stando alle
idee di Natali invece, ripreso da Repubblica, «La riforma del MiBACT si farà». “Questo decreto rivoluzionerà il rapporto tra pubblico e privato nella cultura”, aveva
detto Franceschini. A latere poi sono insorti, con polemiche sul tema anche molto
recenti, i sindacati: l’ingresso dei privati nei servizi museali,
secondo le associazioni di tutela dei lavoratori, depaupererebbero lo Stato dei suoi beni. E così si va avanti nelle sabbie mobili. Sull’idea di
portare venti progettisti a Pompei, sui tre milioni di euro da destinare ai
Comuni che faranno attività culturali nelle periferie e al piano per ripristinare il centro storico de L’Aquila in modo unitario e non frammentato
nessuno ha battuto ciglio. Resta inteso che quando si fa cenno ai privati, bisogna tenere in conto che mafia, camorra e company sono già pronti per sparetirsi il bottino da introitare. L’odore degli affari è grande, anzi sulla cultura e sull’arte dà anche prestigio.
E allora, ecco a Firenze ci si è fermati e il treno non parte più.
Carlo Franza