Vincenzo Parea, artista da Biennale. I suoi capolavori monocromi pur con grammature e varianti di tono, sono frutto del pensiero occidentale.
Tra i tanti e vitali eventi visibili a Milano per EXPO MILANO 2015, non può passare inosservata la mostra di Vincenzo Parea dal titolo “Passaggi per l’infinito” che si tiene ad Artestudio 26(Via Padova 26). Mostra di grande spessore per questo artista italiano, lombardo e vigevanese che, nato nel 1940, opera nel campo della pittura analitica fin dal 1969, quando fu salutato favorevolmente come un pilastro dell’arte, dalla critica italiana e soprattutto dai colleghi Giulio Carlo Argan e Carlo Belloli. Oserei dire che, oggi, se avessi avuto l’incarico di curatore del Padiglione Italia della Biennale di Venezia fra la decina di nomi scelti avrei inserito a chiare lettere e per chiara fama Vincenzo Parea. La mostra si lascia leggere attraverso poco più di venti opere, grandi, medie e piccole, nei toni che vanno dal viola al rosso, all’aranciato e al giallo, dal blu al verde-giallastro, destando stupore, incantamento e misticità. Per Vincenzo Parea e per il suo mirabile percorso tutto innestato nel tracciato della pittura analitica cresce da qualche tempo un interesse fuor dal comune, attestato già in un clima che dalla fine degli anni Sessanta Filiberto Menna mise in risalto su quella sponda dell’arte concettuale cui la pittura analitica si declinò con medesime affinità elettive. “Pittura-pittura” resa orchestra in senso minimalista, concreto o luministico-spaziale. E in un momento di tensiva scoperta esistenziale dell’intero pensiero occidentale, questa pittura di Vincenzo Parea, depurata da ogni costruzione, ricostruzione e decostruzione, pare vivere il ritmo poetico degli effetti visivi delle forme prescelte (quadrato, tondo, losanghe, ecc. ) quasi esasperando la coscienza della potenzialità creativa, verso un colore assoluto che oscilla tra atto e potenzialità, tra realizzazione e aspettazione, tra immanenza e memoria. Questa pittura del Vincenzo Parea nella sua fisicità interna, ovvero sul filo dell’esserci e del non esserci, è per via dei ritmi dei piani cromatici, delle tonalità ascendenti e discendenti, diga alla razionalità, sicchè ogni opera monocroma, pur con tutte le sue varianti interne ed esterne, cresce verso un’assolutezza, verso un infinito, verso un ritmo universale, e si fa spazio di attraversamento, calmo orizzonte. Tutti gli spazi delle superfici riambientano una logica interna, in cui rispuntano le suggestioni per Malevic ma anche l’ astrattismo e i successivi movimenti di forma e armonia, e la loro sintesi, l’essenza delle parti e del tutto, il flusso del colore e della luce come testimonianza dell’ordine e ancora l’intima coerenza. La pazienza esecutiva e l’intonacatura delle forme ove aleggia poi la grammatura del colore, mette in scena la tensione spaziale che cresce in ogni angolo e in ogni centro, e il tutto si lascia percepire in una mitologia di ali ed orizzonti, di vuoti e di pieni, di strategie delle forme e liberazione da esse, di architetture e simmetrie, di ideologia interna del visivo e di esperienze percettive, di tracce e parti oblique, decise e nitide. Forme e perimetri entrano ed escono dalla luce che volge verso una vera e propria fenomenologia spaziale, che argomenta anche tracce di misticità, libertà e amore contemplativo, da vera e propria fabula optical. Vincenzo Parea insiste sugli spazi come tracciati di un divenire, sillabati tra movimenti e annunci della bellezza, ormai fermenti centrali di una lingua e di una sintassi inoggettiva, e recinti di quotidiana eternità a luce radente.
Carlo Franza