Marc Fumaroli è morto. Storico della letteratura, saggista e intellettuale di piano internazionale, ha sempre puntato il dito contro gli eventi culturali di massa.
Lo storico della letteratura Marc Fumaroli è morto il 24 giugno, a Parigi, all’età di 88 anni, compiuti lo scorso 10 giugno 2020. Professore, accademico, saggista e ricercatore di fama internazionale, aveva denunciato le minacce che riteneva gravassero sulla cultura causate dalla dissoluzione dell’elitarismo. Lo avevo incontrato l’ultima volta nel marzo 2019 a Parigi, e devo dire che dialogare con lui era sempre un fattore importante, perché gran signore e vulcano di sapere.
Fumaroli era stato eletto al Collège de France nel 1986 e all’Académie française nel 1995, dove era succeduto a Eugène Ionesco, e all’Académie des inscriptions et belles lettere nel 1998. Aveva accumulato molti onori, tra cui la presidenza della Società degli amici del Louvre nel 1996, e in Italia aveva ricevuto la laurea Honoris causa dalle università di Napoli nel 1994, Bologna nel 1999 e Genova nel 2004. Nato a Marsiglia il 10 giugno 1932 da una famiglia corsa, Fumaroli era cresciuto a Fez, in Marocco, dove suo padre, Jean, era un funzionario pubblico e sua madre, un’insegnante, la quale gli insegnò a leggere e scrivere e gli trasmise l’amore per il libro che circoscriverà il suo universo per tutta la vita. Il saggio «Lo Stato culturale, una religione moderna» pubblicato nel 1991 da Fallois in Francia e in Italia da Adelphi, lo aveva fatto conoscere ad un vasto pubblico: una feroce denuncia contro gli eventi culturali di massa promossi dai ministri André Malraux prima e Jack Lang poi, che riteneva una deviazione disonorevole dalla nozione di cultura e un abbassamento dello spirito a scapito della conoscenza. Quando si è costretti a scrivere tra virgolette la parola “cultura”, vuol dire che la cultura è davvero mal ridotta. Quando la differenza fra la promozione turistica, mediatica, celebrativa e la cultura non viene più chiaramente percepita, vuol dire che la “cultura” trionfa. Quando di un libro, di una mostra, di un concerto non si parla più per dire ciò che rispettivamente sono, ma solo per discutere su quanto pubblico hanno attirato e con quali modalità, vuol dire che il senso dei libri, dell’arte e della musica si allontana in una nebbia indefinita. Tutto questo succede ogni giorno sotto i nostri occhi. E talvolta accade – come oggi in Francia – che sia lo Stato stesso a fomentarlo e amministrarlo, trasformandosi in imprenditore che gareggia in sontuosità e inventiva con l’imprenditore privato, con un gesto di apparente devozione alla cultura e una celata volontà di manomissione della stessa, per utilizzarla ai propri fini. In breve, tutto sembra congiurare perché venga dimenticata l’impeccabile intuizione di Jacob Burckhardt secondo cui lo Stato e la cultura sono potenze naturalmente nemiche e tali devono rimanere, per il bene di entrambe. Per valutare questo fenomeno, che è planetario ma assume forme diverse in ciascun paese (e ovviamente ben diverse da quelle francesi in Italia, dove lo Stato si è rivelato incapace perfino di garantire la sopravvivenza fisica delle testimonianze della cultura), occorre uno sguardo capace di abbracciare vasti insiemi, di riconoscere sia che cos’è la cultura sia che cos’è la «cultura». Marc Fumaroli ci è riuscito, con appassionata verve polemica, con solidissimo giudizio storico, con felice insofferenza. La sua analisi si concentra sulla Francia, risalendo alle origini di un fenomeno che si è manifestato platealmente negli anni di Mitterrand pur essendo già predisposto negli anni di Malraux. Ma il discorso va molto più in là e si applica a tutto quel sottile e onnipresente involucro di plastica che ci avvolge e tenta di soffocarci con le migliori intenzioni. Quell’involucro si chiama “cultura”. Il libro “Lo Stato culturale” è apparso per la prima volta nel 1991.
È stato uno dei maggiori storici e interpreti della letteratura e della civiltà, ma soprattutto il più grande esperto di retorica del ‘600. Di più: è a lui che si deve la rinascita di questa disciplina nella sensibilità e nella cultura di oggi. Docente al Collège de France per quasi un ventennio, membro dell’Académie française dal 1995, al posto che fu di Eugène Ionesco, era anche socio straniero dei Lincei, amando – come non si stancava di ripetere – l’Italia come sua seconda patria, della quale riconosceva il ruolo preponderante nella formazione della civiltà europea. Fumaroli era nato a Marsiglia nel 1932, ma cresciuto nel Marocco coloniale dove i suoi genitori si erano trasferiti. Tornato in Francia si dedica alla ricerca e poi diventa docente universitario, consacrando la propria opera allo studio della tradizione letteraria europea. Con “L’età dell’eloquenza”, apparsa nel 1980, restituisce alla retorica la sua centralità non solo nell’epoca rinascimentale, ma ne fa un rimedio contro l’impoverimento della parola che costituisce uno dei mali più insidiosi del mondo attuale. Fumaroli è stato il primo infatti a rilanciare gli studi di retorica in Francia, ripristinandone l’insegnamento al Collège de France. È di un decennio dopo l’altra sua opera fondamentale: “Lo stato culturale”, dove con appassionata verve polemica, unita però a un solidissimo giudizio storico, prendendo le mosse dalla spettacolarizzazione della produzione artistica Fumaroli ci mette davanti a un’analisi puntuale di quell’onnipresente “involucro”, che ci avvolge costantemente – rischiando talvolta di soffocarci pur con le migliori intenzioni – e che si chiama “cultura”.
Tra le altre opere da ricordare, “La scuola del silenzio” (1994), testo che mi ha accompagnato per diversi mesi, dove riflette sulla diffusione delle immagini nel diciassettesimo secolo e soprattutto sul ruolo di alcuni grandi – da Guido Reni a Caravaggio a Poussin – e, il suo ultimo lavoro, “La Repubblica delle Lettere”, tradotto in Italia nel 2018. Per anni collaboratore di Repubblica, nel 2001 Marc Fumaroli ha ricevuto il premio Balzan per la storia e la critica letteraria del XVI secolo. Eccezion fatta per Eroi e oratori, pubblicato dal Mulino nel 1990, tutte le sue opere sono state tradotte da Adelphi.
Carlo Franza