Le opere dell’americano Mike Kelley,frutto dell’artista ribelle nauseato dalla borghesia
Gli artisti sono sempre il termometro della società,parola di critico. Poco più di un anno fa veniva trovato suicida Mike Kelley(1954-2012) nella sua casa di Los Angeles, a seguito di una depressione nella quale l’artista era rimasto intrappolato. Dopo la morte non solo c’è stata una riscoperta del suo lavoro come la grande retrospettiva con 200 lavori che ho potuto vedere allo Stedelijk Museum di Amsterdam in cui si raccontavano trent’anni di carriera dell’artista americano,ma oggi all’Hangar Bicocca (via Chiese 2) di Milano ecco le opere più pensate e frutto del suo disagio. Anzitutto, per l’accesso alla prima opera (A domestic scene)dello spazio espositivo una grande scritta “Eternity is a long time” e ne chiarisce bene il suicidio di uno dei due protagonisti, quasi fosse una prova generale.Opera che oggi fa parte della collezione del multimiliardario Francois Pinault ed esposta qui a Milano insieme ad altre provenienti dal Museo Reina Sofia di Madrid e dalla Fondazione Kelley che gestisce e tutela le opere dell’artista ormai giunto all’apice della sua fama. In mostra, ed è questa la novità più assoluta, non le opere delle memorie e dell’infanzia, del bad boy borderline,e quindi le opere più conosciute come ad esempio i pupazzi di peluche, ma quelle che si rapportano a temi forti come l’architettura modernista, la relazione con la storia dell’arte e la letteratura americana. Un esempio? Ecco “John Glenn Memorial Detroit River Reclamation Project” realizzata nel 2001 e dedicata all’astronauta Johnn Glenn, ricoperta di frammenti recuperati nel fiume di Detroit. Ma ricordi e memorie affiorano anche in “Light(Time)- Space Modulator” del 203 in cui si vede una scala a chiocciola usata dai vecchi proprietari( suo il trasferimento da Detroit dov’era nato nel 1954 a Los Angeles) sospesa per non dire appesa al soffitto, e che ruotando proietta foto di Kelley mescolate a quelle dei precedenti proprietari, e tutto il rumore della rotazione coperto da un suono da carillon. Ancora ricordi e memorie, ma accanto all’autobiografico non sfugge l’elemento sociale e politico, perché Kelley è stato un commentatore e un fustigatore della cultura popolare americana, critico non solo verso il perbenismo e la borghesia quanto verso certo finto ribellismo della gioventù contemporanea, anche omosessuale. Non va dimenticato che aveva studiato con Johnn Baldessari, Laurie Anderson, Douglas Huebler e poi nel tempo era divenuto amico di Tony Ousler, Paul McCarthy e Jim Show. Come non va dimenticato quel rapporto molto stretto che ebbe con Kim Gordon fondatrice dei Sonic Youth per i quali Kelley nel 1992 disegnò la cover dell’album “Dirty”. Negli anni era sempre riuscito a regolamentare il suo io, anche se sempre con difficoltà, finchè causa anche della globalizzazione, della società in decadenza, dell’anima spaurita del nostro tempo, si è sentito inerme, incapace, impotente, ed ha pensato alla morte come una liberazione. Oggi questa mostra ce lo racconta.
Carlo Franza