Una grande, grandissima mostra. Di quelle di cui non è facile vederne in giro, sia per l’impianto storico che per la raccolta d’insieme di una delle stagioni più interessanti dell’arte sperimentale e dei movimenti del XX secolo. E’ l’omaggio ad una delle più importanti personalità della storia dell’arte contemporanea, Giuseppe Panza di Biumo(Milano 1923-2010), che si tiene all’interno del programma espositivo 2014 della Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro a Venezia. Ha per titolo “Giuseppe Panza di Biumo. Dialoghi Americani”. Protagonista del collezionismo internazionale del XX secolo, Giuseppe Panza ha creato a partire dagli anni Cinquanta una delle più interessanti raccolte d’arte dei maestri della pittura americana del secondo dopoguerra. L’esposizione presenta un’accuratissima selezione di capolavori raccolti fin dai primi anni della sua attività di collezionista, dall’espressionismo astratto alla pop art, dalla minimal all’arte concettuale, per arrivare alla “terza collezione” costruita dagli anni Ottanta in poi. A cura di Gabriella Belli e Elisabetta Barisoni, con il progetto espositivo di Daniela Ferretti, la mostra è ospitata negli ampi spazi della prestigiosa Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro, che, in linea con quanto avviato con il recente restyling, si aprono ad accogliere mostre di peso internazionale dedicate alle sperimentazioni del XX secolo. Vi troviamo una quarantina di lavori di 27 artisti giunti a Venezia in prestito dai musei Guggenheim di New York e MOCA di Los Angeles, le due istituzioni americane che conservano i nuclei più importanti della collezione Panza di Biumo, insieme ad un gruppo di significative opere provenienti dalla collezione della famiglia, oggi altrettanto amorevolmente gestita dalla moglie Rosa Giovanna Panza e dai figli. Si tratta di un’occasione unica per il pubblico di vedere, esposta per la prima volta in Italia, la parte più “segreta” e nello stesso tempo più nota – per la fortuna critica che accompagnò il destino dei suoi protagonisti – della straordinaria collezione che Giuseppe Panza di Biumo ha raccolto a partire dagli anni ‘50, con capolavori di Robert Rauschenberg, Roy Lichtenstein, Franz Kline, Donald Judd, Mark Rothko, Dan Flavin, Hanne Darboven, Jan Dibbets, Joseph Kosuth, Richard Serra e molti altri esponenti della modernità d’oltreoceano. La coerenza della collezione rivela molto dello spirito con cui è stata costruita. Per Giuseppe Panza – scomparso nel 2010 – collezionare ha sempre significato attribuire un senso estetico ed etico alla sua vita giornaliera, una relazione molto complessa, intima e appassionata che non riguardava, se non in maniera del tutto residuale, l’area dell’investimento economico. Sia quando sceglie, nella prima stagione della sua collezione, gli autori statunitensi del post-formalismo, toccando con mano il vigore creativo della giovane generazione artistica americana, sia quando, a partire dal 1969, coglie tra i primi il valore e la novità dell’arte concettuale, Panza agisce sempre come un vero talent scout mosso dall’esigenza di scoprire e da un’assetata curiosità di conoscere.“Quello che posso dire – spiega nelle conversazioni con Philippe Ungar – è che la mia ricerca va oltre i limiti di quello che si vede: tende a qualcosa che non riesco mai veramente a raggiungere, ma che ho la sensazione coincida con la pienezza della vita. Il sentore che tutto derivi da questa cosa incomprensibile…è una ricerca personale. Ho la sensazione che anche chi crea sia alla ricerca del superamento di qualcosa, che egli diventi lo strumento di una forza, di un soffio, di un’energia di cui solo raramente siamo consapevoli”. E ancora, nella sua autobiografia pubblicata nel 2003: “la vera arte è sempre uno strumento per comunicare con l’ignoto, che è dentro di noi e attorno a noi”. Autentico mentore della contemporaneità, Giuseppe Panza di Biumo si è dunque avvicinato precocemente alla pittura americana ed europea del secondo dopoguerra, con intuizioni originali in tempi “non sospetti” e rapporti personali con gli artisti, costruendo una collezione che è documento fondamentale e non convenzionale per comprendere l’evoluzione artistica di quel periodo.

Una collezione che l’Italia si è fatta sfuggire quando la Regione Piemonte, nel 1983, non colse l’offerta di vendita di 80 opere della raccolta a un prezzo scontato purchè restassero in Italia (sarebbe stato poi il MOCA di Los Angeles a comprarle) o quando altre città non resero possibile le donazioni proposte; una collezione la cui identità viene ora ricostruita, a grandi tappe, nella mostra di Ca’ Pesaro, allestita con l’intento di assecondare il gusto e la predilezione di Panza per il silenzio e gli ampi intervalli e fedele testimonianza delle sue preferenze collezionistiche. Così della carrellata di capolavori che il pubblico potrà ammirare a Venezia non poteva mancare per esempio la prima opera di Rauschenberg acquistata da Panza: quel Kickback che “lo impressionò” a Documenta II, nel 1959, “perché vi era un’atmosfera carica di emozioni, una rappresentazione della realtà completamente trasfigurata dalla memoria e dalla passione, episodi del momento”.

Nessuno a quel tempo era interessato a Rauschenberg, ma Panza – come ha ricordato Leo Castelli che lo definiva “probabilmente il collezionista più straordinario in cui mi sia mai imbattuto” – “comprò in una sola volta sei dei suoi quadri, o forse anche di più”. C’è anche il suo primo Kline, Buttress, acquistato nel 1956 per 550 dollari, alcuni degli Oldenburg ottenuti tramite la Green Gallery di Dick Bellamy e l’opera Murillo (1968) di Robert Ryman – per Panza uno degli artisti fondamentali del secolo – che egli vide nel ’70, in occasione di una monografica alla galleria Lambert di Milano: “un’improvvisa rivelazione; in quell’istante sentivo che era qualcosa di grande che s’imponeva con autorità alla mia coscienza, senza nessuna evidente ragione…”. All’arte concettuale Panza s’interessa tra il ’70 e il ’72 – “per la prima volta la filosofia ha avuto un’immagine… comunicare idee ed emozioni questa è la funzione dell’arte” – e a Ca’ Pesaro, tra gli artisti esposti, c’è anche Walter De Maria con Broken Kilometer del ’79: “quando un manufatto arriva alla perfezione – rifletteva – si stacca dal tempo, diventa la presenza di un’idea immortale; se il profondo desiderio dell’uomo è vincere la morte, quest’opera è la testimonianza di una possibilità!”.

Fino alla “terza collezione”, dall’88 in poi, dopo una lunga pausa degli acquisti: Alan Grahm e le sue forme primordiali, Max Cole, Lawrence Carroll, Gregory Mahoney con la sua “contemplazione dell’universo”, David Simpson “la cui arte – per Giuseppe Panza di Biumo – rivive nel colore e nella luce un episodio della vita cosmica che ci dona la possibilità di esistere”. Mostra, dunque, fondamentale, colta, intrigante, razionale, selettiva, in quanto spazia sull’arte americana del secondo dopoguerra e sulle scelte messe in atto da un collezionista, Giuseppe Panza, di così grande levatura intellettiva, consegnandoci una lezione alta e di spessore, unica, insegnamento certo da offrire ai giovani di oggi che guardano talvolta all’arte con snob e sufficienza.

Carlo Franza

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