Andreas Miggiano, un talento che onora l’Italia. Al Plus Berlin di Berlino il giovane artista italiano cattura l’attenzione della critica tedesca.
Cinquanta opere esposte al Plus Berlin di Berlino in Warschauer Platz mettono a fuoco la spiccata personalità artistica di questo giovane artista italiano, Andreas Miggiano (Horgen-Zurigo 1980), un salentino che vive a Pisa, il quale sia per la tecnica utilizzata, la cera, che per l’indagine a tutto campo sulla natura e sulle sue trasformazioni offre un’idea del nuovo ben chiara, capace soprattutto di far rivivere passato e presente, le grandi lezioni del passato con la transitorietà e la quotidianità dell’oggi.
Devo confessarvi che il suo lavoro, per me che giro il mondo tra gallerie, musei e studi d’artista, tra Europa e Americhe, m’è parso di una febbrilità incredibile, in quanto Miggiano compone le sue strutture che vivono grazie a una pioggia di scaglie di cera così fitte da far sembrare, monocromi e non, pagine appiumate che movimentano lo spazio ma si rivelano anche modernissime architetture, pareti o tetti, tutto giocato in un clima di profondo e sensibilissimo post-minimalismo.
All’artista ho posto delle domande e questa intervista ne allarga sicuramente la comprensione del suo lavoro.
Cosa vuol dire, per te, oggi essere uno scultore?
Vuol dire avere un canone per esprimere un equilibrio. Siamo tutti figli del Partenone e poi di Roma che ne riconobbe nella tradizione ellenica la portata artistica. La storia è cosa preziosa e porta fiera in sé quella matrice di bellezza; ognuno poi continua a cercare di fare arte secondo un proprio registro, favorendo o rinunciando a quell’armonia classica, ma la pietra di paragone rimane la medesima: in realtà essere uno scultore oggi fondamentalmente significa fare ricerca.
Come ti sei avvicinato all’uso della cera per la realizzazione delle tue opere?
È un materiale che mi ha sempre affascinato, un materiale a misura d’uomo che non necessita di grandi apporti esterni come fonderie o di spaccare massi di marmo, eppure può regalare grandi opere nobili, basti pensare al lavoro di Medardo Rosso per rendersene conto: sotto quei visi di cera sembra di sentire il palpito della vita, sono opere commoventi e straordinarie.
La cera inoltre, mi consente un controllo pressoché totale sul mio lavoro, su ogni scaglia appiumata. Amo la tecnologia ma preferisco non delegare a quest’ultima la mia produzione artistica. Cominciai a lavorare con la cera durante gli studi perché mi ha sempre colpito per la sua caducità, è il materiale che più mi ricorda l’umanità, un sentimento fragile come la bellezza; necessita di cura e di civiltà e vorrei considerare le mie tele come un termometro di quest’ultima. Pompei non è di cera, eppure vi sono diversi problemi di conservazione a minarne l’esistenza, perciò la questione principale non è il materiale impiegato ma l’educazione alla tutela e alla valorizzazione del nostro patrimonio artistico culturale, della nostra storia.
Molte tue opere sono monocrome, che valenza ha questo dato estetico anche in rapporto ad altri artisti che hanno lavorato in tal senso?
Nei monocromi non ci sono visi e braccia a cullarci e a rassicurarci, ognuno è di fronte al proprio io, al proprio inconscio e a ciò che quel colore suggerisce.
Nel mio panorama artistico di riferimento sicuramente ci sono le monocromie pittoriche di Rothko, le quali hanno più a che fare con lo spirito che con la materia, realizzando i propositi di Medardo Rosso che,per l’appunto,affermava “a me, nell’arte, interessa soprattutto di far dimenticare la materia”; ma c’è anche la grande tradizione di Alberto Burri con i suoi cretti per quel che concerne l’approfondimento circa i valori plastici dei materiali.
Credo che la necessità che molti artisti hanno di confrontarsi con la monocromia sia un’indagare su una sorta di genesi, eliminare le sovrastrutture:cercare di tornare al principio di ogni cosa.
Carlo Franza