Buffoni, villani e giocatori alla corte dei Medici. Questa singolare mostra a Palazzo Pitti a Firenze svela la corte barocca avvolta da una triste comicità.
Stupisce molto questa mostra, e stupisce per i soggetti mirati al tema individuato alla costruzione dell’esposizione. Circa trenta opere del Seicento e Settecento, prevalentemente provenienti dai depositi della Galleria Palatina e dalla Galleria delle Statue e delle Pitture (entrambe facenti parte del complesso delle Gallerie degli Uffizi creato dalla recente riforma), illustrano soggetti figurativi bizzarri ricorrenti nelle collezioni medicee. Si tratta di scene cosiddette ‘di genere’, che nell’universo codificato di questo tipo di pittura,hanno permesso di illustrare, spesso anche con intenti morali o didascalici, aspetti comici della vita sociale e di corte, cioè quei temi ritenuti altrimenti bassi e privi di decoro, indegni di una pittura alta, di soggetto sacro, mitologico e storico. E all’interno di questa cornice vengono alla ribalta personaggi marginali e devianti come buffoni, contadini ignoranti o grotteschi, nani e giocatori di giochi tanto leciti che illeciti. La pittura ‘di genere’ è divenuta così lo strumento che ha permesso all’arte di attingere alla realtà del mondo.
Nella società apparentemente immobile dell’ epoca e del sistema barocco, nel quadro dell’assolutismo, cui danno volto nelle sale di Pitti i ritratti dei granduchi e dei gentiluomini della corte, la pittura ‘di genere’ ecco essere strumento critico che spiega in parte quel mondo. Un campionario variopinto, quanto inaspettato, di personaggi della corte medicea, che incarna l’ambivalente mondo della buffoneria, della rusticitas e del gioco. Sono spesso personaggi realmente vissuti, cui erano demandati l’intrattenimento e lo svago dei signori, antidoto alla noia che si respirava nel rigido cerimoniale spagnolesco. Ciò è visibile sia nel grottesco più sgradevole del Nano Morgante del Bronzino che, nella leziosità cortigiana dei Servitori di Cosimo III de’ Medici. La comicità di questi soggetti, non esente nel profondo anche da risvolti drammatici o almeno malinconici, si declina nei buffoni di professione, qui rappresentati nei tre tipi: della parola (abilissimi nelle acrobazie verbali e nelle improvvisazioni di spirito) ; del fisico (l’anomalia degli acondroplasici e dei deformi) ; e, infine, della devianza mentale come il Meo Matto di Giusto Suttermans.
Così ha ben sottolineato E. D. Schmidt, nuovo Direttore delle Gallerie degli Uffizi: “Considerati alla stregua di giocattoli viventi, di meraviglie della natura degne di una Wunderkammer, ma anche accorti consiglieri dotati di speciali licenze rispetto all’etichetta della corte, questi buffoni, nani, giocolieri spuntano dai documenti d’archivio con un’identità definita: vengono infatti ricordati per imprese (e talvolta misfatti) che li inseriscono come persone reali nella vita della corte, la cui biografia può esser tratteggiata con sapidi dettagli, e di molti si può chiarire l’alto spessore umano e culturale. La posizione dei buffoni, a metà strada tra il divertimento e la coscienza parlante del signore, li eleva a protagonisti di un’arte giocosa e bizzarra, che permette anche all’artista felicissime libertà espressive: e valgano da esempio i ritratti del nano Morgante di Bronzino e Valerio Cioli, i caramogi nelle Stagioni di Faustino Bocchi, il Meo Matto di Suttermans e tanti altri presenti in questa mostra, oltre alle figure silvane e occupate in strane attività che spuntano inaspettate tra le siepi del Giardino di Boboli”. Partecipano inoltre alle buffonerie alcuni rustici, come la vecchia in abito di nozze, patetica corteggiatrice di un giovane garzone, smascherata da un nano impietosamente arguto in un quadro bellissimo della fine del Seicento, ma di incerta attribuzione, o come la contadina Domenica dalle Cascine, raffigurata dal Suttermans – ritrattista ufficiale dei granduchi – nel quadro omonimo, che risulta saltuariamente stipendiata dalla corte per prestazioni da “buffone”.
Appartengono invece al mondo della buffoneria di mestiere Alberto Tortelli e Giuliano Baldassarini raffigurati da Niccolò Cassana in veste venatoria, sospesi dunque tra il piano figurativo dell’ambientazione arcadica, e per nulla svelanti per allusività al ruolo svolto a corte, e quello della verità biografica che ce li restituisce al mestiere di addetti al divertimento del gran principe Ferdinando. Della serie dei servitori fa parte anche il magnifico quadruplice ritratto di Servi della corte medicea con cui Anton Domenico Gabbiani offre una sorta di regesto di forme e temi, qui antologizzati nel bizzarro campionario di personaggi – tra cui un nano, un gobbo, un moro – tutti realmente documentati come ‘prestatori d’opera’, servile o buffonesca, a palazzo.
Tra gli svaghi un posto non meno trascurabile di quello occupato dai suscitatori del riso avevano i giochi, come quelli di parola, da tavolo – in particolare le carte -, e quelli propriamente fisici. Non mancano testimonianze pittoriche, oltre che letterarie, di svariati personaggi di corte intenti all’esercizio di un gioco ginnico, come l’enigmatico “Ritratto di giocatore con palla”. Lo scenario dello svago, l’equivoca taverna ai margini dei ‘regolari’ confini della società, esercita una fascinazione sulla corte che ne ricerca e ne acquisisce le rappresentazioni alle proprie collezioni, come nel “Suonatore di chitarra”, riconducibile al Maestro dell’ Incredulità di San Tommaso (alias Jean Ducamps?), in cui il giocatore/musico squaderna senza pudore sul tavolo, cui si appoggia, i proibitissimi dadi e un mazzo di carte. Ugualmente intriganti, nella loro ridimensione di personaggi ‘irregolari’, e per questo ‘attirati’ all’occasione della presente esposizione, i protagonisti della movimentata “Scena di gioco e chiromante in atto di leggere la mano” di Nicolas Regnier o l’umanità errante e cenciosa dei “Due cantastorie vagabondi”, o quella appena più rassicurante dei “Venditori ambulanti” di Monsù Bernardo. Le forme del comico crescono in questo gioco di (s)proporzioni, di brulicante e frenetico affollarsi di affaccendatissimi pigmei in alcune opere di Faustino Bocchi, tra cui il corteo de La mascherata di gnomi (Il gatto Mammone) e le minuscole nudità de “I Nani al bagno” che rappresentano l’esito estremo della grammatica delle distorsioni, in cui il bresciano fu maestro. Non manca nemmeno il lampo demoniaco che la società attribuiva spesso, con enorme crudeltà, alla natura deforme nell’inquietante “Banchetto grottesco” di creature più o meno umane e fornite di corna e nello straordinario musical infernale di “Orfeo nell’Ade” di Joseph Heintz il giovane, dove caramogi e nani ballano su uno scalone da fare invidia ai migliori palcoscenici di Broadway. Infine con i dipinti in mostra troviamo le sculture in marmo del Nano musicante di Agostino Ubaldini e del Nano con sonagli di Andrea di Michelangelo Ferrucci, oltre al bronzetto del Giambologna raffigurante l’Uccellatore, proveniente dal Museo Nazionale del Bargello. L’incisione col Ritratto di Bernardino Ricci detto il Tedeschino, a cui Stefano della Bella ha affidato il racconto di una delle personalità più interessanti della buffoneria di professione al servizio dei Medici nel primo Seicento, completa – in termini di confronto e completamento – le tematiche rappresentate dai dipinti. E a movimentare la mostra è stato predisposto un itinerario nel Giardino di Boboli -che io avrei evitato di mettere in atto e di giustificare – dove tutti questi personaggi villani, contadini e nani, giocatori e caramogi si animano, pur pietrificati, e si nascondono nei boschetti e nelle radure come sfuggiti dall’universo pittorico. In questo si è voluto strafare, giacchè la mostra era già di per sé molto indicativa e segnante. Non occorreva aggiungere nulla di più.
Carlo Franza