L’origine della natura morta in Italia. Caravaggio e il maestro di Hartford. Una carrellata di capolavori in mostra a Roma alla Galleria Borghese.
La Galleria Borghese di Roma ha presentato la mostra “L’origine della natura morta in Italia. Caravaggio e il Maestro di Hartford” con cui, proseguendo l’opera di valorizzazione del proprio patrimonio artistico, si analizzano le origini della natura morta italiana nel contesto romano della fine del XVI secolo, seguendo i successivi sviluppi della pittura caravaggesca nei primi tre decenni del ‘600. La mostra è stata curata da Anna Coliva, storica dell’arte e direttrice della Galleria Borghese e da Davide Dotti, storico e critico d’arte che si occupa di barocco italiano e in particolare dei temi del vedutismo e della natura morta. Da alcuni anni la Galleria Borghese porta avanti un programma di mostre, varie per argomento e approccio ma tutte orientate sulla sua natura, sulla sua perfetta e intensa storicità di edificio e di collezione. In ogni mostra la Galleria non è la location ma la protagonista indispensabile allo svolgimento del tema delle mostre stesse. Quella in questione è l’occasione, prettamente storiografica e filologica, per inserirsi nei percorsi della Galleria narrando il tema dell’origine del genere pittorico che solo molto più tardi verrà chiamato “natura morta”. La critica d’arte seicentesca infatti denominava tali quadri come “oggetti di ferma”, con l’esatto moderno significato di “modelli immobili”, al pari della locuzione anglosassone still life.
La mostra ha voluto fare il punto sull’avanzamento degli studi critici ed ha esaminato , con i contributi degli specialisti nei saggi in catalogo, questioni filologiche molto complesse che riguardano provenienze, autografie, appartenenze a gruppi stilistici di artisti di cui purtroppo non conosciamo l’identità anagrafi-ca a causa del silenzio delle fonti documentarie, ma che sono ben noti dal punto di vista dello stile, tanto da essere raggruppati dalla critica sotto name-pieces molto suggestivi: innanzi tutto il Maestro di Hartford, che è il soggetto principale poiché la sua produzione di still life si lega strettamente ad alcuni lavori di Caravaggio, tra cui l’Autoritratto come Bacco (Bacchino malato), il Ragazzo con cesta di frutta, il Suonatore di liuto e la Cena in Emmaus Mattei. Per molto tempo inoltre, Federico Zeri ha ritenuto di identificare il Maestro di Hartford con Caravaggio giovane. Per attestare come la lezione del Maestro di Hartford e del primo Caravaggio fu raccolta dai pittori attivi a Roma nei primi due decenni del ‘600, sono state esposte le opere del Maestro del vasetto, del Maestro delle mele rosa, di Pensionante del Saraceni, e di altri specialisti di primissimo piano.
Accanto ad essi i pittori che frequentarono l’Accademia istituita dal marchese Giovanni Battista Crescenzi nel suo Palazzo alla Rotonda adiacente al Pantheon: Pietro Paolo Bonzi detto Gobbo dei Carracci, il Maestro della natura morta Acquavella che la critica è in parte propensa a identificare con Bartolomeo Cavarozzi e dello stesso Crescenzi, a cui gli studiosi attribuiscono alcune opere tra cui Frutta e ortaggi su ripiani di legno e di pietra della Galleria Estense di Modena.
Caravaggio fu il primo a conferire ad un brano di natura ritratto dal vero con folgorante realismo la medesima dignità formale e interpretativa riservata fino allora ai soggetti di figura, o di storia sacra e mitologica. Come testimonia la presenza in mostra della Canestra dalla Pinacoteca Ambrosiana, egli fu il primo ad affermare la natura morta come soggetto rilevante in sé, carico di una pregnanza simbolica che nulla condivide con le “inutili microscopie dei fiamminghi” (Roberto Longhi). La Canestra è l’opera che per prima e nelle forme più convincenti impone la rappresentazione pittorica delle cose simultaneamente all’occhio e alla coscienza e che, realizzando in pittura la realtà dell’oggetto, afferma la realtà del soggetto che la dipinge e la verità dell’atto pittorico. Si può quindi dichiarare che la Canestra inaugura la grande vicenda dell’arte moderna. Prima di questo tempo e di quest’opera i brani di natura morta, certamente numerosi in tutta la storia dell’arte sin dalle sue origini, non sono che degli incisi all’interno di più vaste composizioni, sottomessi gerarchicamente ad argomenti più ampi della rappresentazione, fatti del tutto “accidentali” che avevano lo scopo di mostrare la perizia tecnica nel creare una mimesi perfetta del reale, e l’abilità lenticolare dell’artefice. I dipinti attraverso i quali si prepara invece lo straordinario salto concettuale che in modo perfetto e compiuto si attua con la Canestra dell’Ambrosiana, e che hanno dato origine a quanto definiamo un genere pittorico nuovo e autonomo, sono tutti presenti nella collezione Borghese sin dalla sua formazione nei primi anni del Seicento, grazie alle brame collezionistiche del cardinale Scipione Borghese. Si tratta delle due opere di Caravaggio Autoritratto come Bacco (Bacchino malato) e Ragazzo con canestra di frutta, e delle quattro nature morte poi riunite dalla critica sotto il nome convenzionale del Maestro di Hartford. Per questa ragione, innanzi tutto, una mostra come questa doveva di necessità svolgersi entro la Villa Borghese, perché le vicende della sua nascita e della sua affermazione si intrecciarono con la storia e i protagonisti di questo luogo. Le sei opere sono tornate a riunirsi, per la prima volta dopo quattrocento anni, in occasione di questa mostra. Tutte e sei provenivano dal sequestro di ben centocinque dipinti effettuato, il 4 maggio 1607, dall’agente fiscale pontificio ai danni del Cavalier d’Arpino –l’artista più celebre e richiesto del suo tempo ma anche grande impresario d’arte, mercante, forse collezionista –su ordine di Papa Paolo V Borghese, zio del cardinale Scipione, creatore della Villa e della raccolta. I quadri furono immediatamente donati dal Papa al nipote per arricchire la sua già celebre galleria in formazione.
La medesima provenienza dalla confisca ai danni del Cavalier d’Arpino è una scoperta filologica che si deve a Federico Zeri, il quale fece seguire la suggestione che sia per la luce incidente quale fattore di sintesi compositiva, che per la “nitida rappresentazione del più minuto particolare”, sia anche per la forza e l’evidenza ottica degli oggetti rappresentati le quattro nature morte del Maestro di Hartford rappresentassero le prime prove pittoriche, allora immature, di un Caravaggio giovane ancora all’interno della bottega del più vecchio Cavalier d’Arpino.
L’ipotesi critica, accolta all’epoca (1976) con molto scalpore e qualche scompostezza, alla prova dei fatti non risulta oggi più sostenibile e questa mostra, che presenterà nel catalogo anche i risultati di inedite indagini diagnostiche, servirà a sancire definitivamente l’estraneità della mano del genio lombardo rispetto alle opere raccolte sotto il nome del Maestro di Hartford. Ma ciò non ha tolto alcuna efficacia alla formulazione critica di fondo che poneva a Roma l’origine, in quei dipinti e in quella collezione –la raccolta Borghese appunto –della natura morta come genere autonomo, sotto il segno del naturalismo caravaggesco. E i confini temporali assegnati alla mostra sono, di conseguenza, il 1593 del Bacchino Malato e il 1630 circa, anno della Fiasca proveniente dalla Pinacoteca di Forlì, opera di invenzione potente e di qualità talmente alta da non avere ancora trovato un autore certo nell’ambito di quanti al momento erano attivi su questo genere. Dobbiamo a Roberto Longhi le parole più giuste per distinguere il prima –prima della grande e fervida elaborazione del nuovo tema della natura morta che si prospettava ai pittori –dal dopo; così il prima: “le inutili microscopie dei fiamminghi, estrema degenerazione dell’acutezza lenticolare del grande, ma pericoloso, ‘400 nordico, che ora finiva di scadere a lavoro di pazienza da monache e da certosini”; così il dopo: “Mario dei Fiori dipingerà ormai festoni vegetali sulle specchiere dei principi romani. La ‘natura morta’ semplice è scaduta e sepolta assieme con lo spirito caravaggesco. E degli accozzi compositi fra il ‘barocco’ e la vecchia sedulità nordica,meglio tacere”.
Carlo Franza