Francesco Scarabicchi e la raccolta di poesie “Il Cancello”. Ecco la recensione a questo nobile volumetto di uno dei poeti cardine della poesia italiana contemporanea.
Ho appena finito di leggere questa ricca e recente raccolta di poesia di Francesco Scarabicchi (Ancona, 1951) dal titolo “Il Cancello”(Pequod, collana Rive, pp.132, 2018), insieme ai distici di “Ferruccio” e ancora una scelta di testi che provengono da due raccolte precedenti come “La porta murata”(1980-1982) e “Il viale d’inverno”(1982-1989) dove vive anche la sezione Il cancello -poi ripresa- che oggi dà il titolo a questo volume. Autoantologia la chiama Scarabicchi, forse, aggiungo io, ma sottolinea fermamente essere di più, “una sorta di romanzo di formazione in versi.
Non va dimenticato che la raccolta dell’esordio di Scarabicchi, ovvero “La porta murata”(Ancona, 1982) aveva un’introduzione di Franco Scataglini, grande, grandissimo poeta marchigiano, il vero maestro di Scarabicchi, per tutte quelle immagini condensate, di mare, di cielo, di vento, di nebbia, di freddo, di scorci e figure semplici, domestiche, care( la sera si dilegua/ fra la rete dei rami/ e non so trattenerla/ a quest’autunno/ perché adesso lo sento/ che dietro non c’è niente/ e davanti,con gli anni,/ invecchia anche la nebbia/.).
E proprio perché attinge da raccolte precedenti muove tutti i crinali del pensiero poetico, per cercare determinatamente il cuore della parola e dell’immagine, dalla contemplazione al vissuto, dallo scandaglio del paesaggio alla presa diretta delle piccole cose, con un contatto fresco e immediato con esse, ancora uno stupore vibrante e nativo davanti allo svelamento del mondo e dei luoghi geografici che gli appartengono, e del mistero che palpita in ogni aspetto della vita e nelle figure a lui care, come il padre, la madre( Ti penserò per sempre/ seduta alla finestra/ mentre gli occhiali togli/ e a me ti volti/ con un sorriso,cara,/ che non pertiene ai morti./), e altri.
I tratti che queste poesie condividono con Caproni e Saba certo, ma anche partendo da Pascoli in poi con Sbarbaro, Gatto, Adriano Grande e Penna, sono più o meno visibili, nel focalizzare i margini del tempo e della vita, la morte, il sentimento del vivere e la salvaguardia della memoria della vita(…per rammentare un sogno/ fanciullezza che guardi,/ ferma al vetro/…), la capacità della parola di incorniciare persone e cose, di filtrare ricordi, luoghi, geografie, familiari -in primis la madre-, paesaggi d’inverno soprattutto, con la neve e i suoi biancori.
Spesso questa poesia vive di riconoscibili tratti fondamentali come il frammentismo nella sua costruzione ( pure colto da Antonio Tricomi e Pier Vincenzo Mengaldo), eppoi l’attenzione al particolare e al dettaglio (l’occhiale, le pantofole, il ditale, l’uovo da rammendo, il comodino di noce, la caraffa, la mantellina a scacchi, ecc.), fino allo sconfinamento del trasognamento del pensiero carico d’inquietudini, di desiderio, di ansia, talvolta. E si interroga Scarabicchi della sua condizione di poeta, investigando spazi di memoria spesso difficili da distinguere da un sogno.
I movimenti della lingua, della terminologia delle parole, degli assetti espressivi, tutti partenti da un verso “classico” sono netti e ancorati al registro dela voce che mette a fuoco la vita, ed anche il tono del linguaggio che sostiene la parola, e i contenuti che determinano lo stile, il modo di scrivere del poeta Scarabicchi.
La parola è tutta affidata a un’etica della scrittura, in cui scorre la passione, l’accoratezza dei sentimenti, il tremore del racconto( tutto sommato,/ quello che conta è poco,/ il resto va,/ polvere di ogni vivo,/…) l’interrogazione di quanto percepito e visto, le stagioni e soprattutto l’inverno con i colori del bianco-neve, della pioggia che intristisce, della malinconia che affonda nei ricordi. Scarabicchi coglie di ogni cosa e figura il momento e l’istante, il respiro della verità e il suo tra-dirsi, la legge del simbolo, il vivere con la luce e le ombre, la natura che ama nascondersi, la cecità dolorosa delle assenze, e innesta tutto nell’erotologia della parola. Vi riesce a fondo, ci consegna una poesia che sa di vita e di mistero.
Il cancello è per metafora un volume aperto certo, aperto a una poesia che si fa ritmica, essenziale, strofica, domestica, quotidiana, musicale, francescana, talvolta, più che monacale, dove le immagini scorrono partecipate, recitando di una storia più personale che pubblica.
Biografia. Francesco Scarabicchi è nato ad Ancona, dove vive, nel 1951.
Ha pubblicato, in versi, La porta murata (Ancona, Residenza,’82), con introduzione di Franco Scataglini, Il viale d’inverno (Brescia, L’obliquo,’89), con postfazione di Massimo Raffaeli, Il prato bianco (ibidem,’97) raccolti, in scelta, ne Il cancello 1980-1999 (Ancona, peQuod, 2001) con una nota di Pier Vincenzo Mengaldo; Il segreto (Edizioni L’obliquo, Brescia, 2007); Frammenti dei dodici mesi con quattordici fotografie di Giorgio Cutini (Brescia, L’obliquo, 2010) e uno scritto di Goffredo Fofi; Nevicata con venticinque acqueforti di Nicola Montanari (Macerata, liberi libri, 2013), con ogni mio saper e diligentia – Stanze per Lorenzo Lotto (Macerata, Liberilibri, 2013). Ha tradotto da Machado e da Lorca raccogliendo una selezione ne Gli istanti feriti (Ancona, Università degli Studi, 2000) e in Taccuino spagnolo (Brescia, L’obliquo, 2000). Si occupa da sempre di arti figurative. Una scelta delle sue cronache d’arte 1974-2006 in L’attimo terrestre (Affinità elettive, 2006). Ha ideato e dirige, dal 2002, il periodico di scritture, immagini e voci Nostro lunedì. Per Donzelli, nella collezione di poesia, ha pubblicato L’esperienza della neve (2003) e L’ora felice (2010). Per Marcos y Marcos ha curato Non domandarmi nulla.
Carlo Franza