A Palermo non sono da trascurare le Catacombe dei Cappuccini, esse si trovano sotto la Chiesa di Santa Maria della Pace, e sono state utilizzate come cimitero,  luogo di sepoltura sin dalla fine del 1500.  Un vero e proprio museo della morte, tra le salme imbalsamate dei frati cappuccini. E badate bene che spesso noi parliamo delle città dei vivi, ma poche volte ci si addentra  a scrivere  delle città dei morti. Luoghi di grande riflessione in tutta Italia, di meditazione soprattutto,  dal Monumentale di Milano allo Staglieno di Genova, fino ai cimiteri di provincia come quello di Alessano in provincia di Lecce, dove vi è la mia Tomba di Famiglia  Ada Damiani-Franza (con  due opere di due illustri artisti italiani, Alessandro Nastasio con la Resurrezione  e Maria Giovanna Manara Brovetto Rondo moglie di Gianfranco Manara,  con la Madonna del cardellino) e dove vi è anche la Tomba del mio amico Vescovo Don Tonino Bello, il prete semplice,   seguace  vero del Vangelo di Cristo. Ebbene, questo cimitero di Palermo non è  affatto un comune sepolcro. Si tratta infatti di decine di metri di gallerie e corridoi dove i morti sono esposti, in bella vista, taluni in posizione verticale, vestiti, con tanto di barba e capelli; altre salme sono perfettamente conservate, altre meno, ma  tutte, tutte,  insieme offrono un macabro spettacolo della morte, visibile a tutti, da far  venire un  brivido. Senza tralasciare che in questo cimitero palermitano l’ospite più caratteristico  di queste catacombe è quella che viene chiamata  la ‘mummia più bella del mondo’, e che è stata a volte chiamata  ‘la bella addormentata di Palermo’: parliamo  di una bambina, la piccola Rosalia Lombardo. Le Catacombe dei Cappuccini  a Palermo ebbero inizio quando i monaci decisero di calare nelle viscere della terra, proprio sotto il convento,  i loro defunti. Resisi conto ad un certo punto che lo spazio non era sufficiente, decisero di allargare il sito sepolcrale sfruttando talune cavità naturali del sottosuolo;  ma quando discesero  nel sepolcro, si resero conto che ben 45 salme dei loro confratelli sepolti anni prima non si erano affatto decomposte, per via che le condizioni naturali avevano permesso una incredibile imbalsamazione. I monaci interpretarono questo fatto come un segno divino, decisero che da lì in avanti i morti sarebbero stati tutti imbalsamati, e lasciati in esposizione. E’ stato così che tutti  i corridoi delle catacombe cominciarono quindi a riempirsi di salme mummificate, in una sorta di ‘museo della morte’ che iniziò ad avere una certa fama e gloria. Per tutto ciò  a fine del 1700 decisero di concedere la sepoltura in quel luogo anche ai

‘civili’ che potevano permettersi di pagare un imbalsamatore, sicchè  il luogo ottenne persino una deroga al divieto napoleonico di seppellire i morti in città, emanato nel 1710, con la nascita dei cimiteri fuori le mura e fuori le città, evento che portò il  Foscolo a scrivere “I Sepolcri”.  Fu così che le catacombe si  riempirono subito  di salme di personaggi illustri e notabili (gli unici che potevano permettersi la mummificazione e la donazione che i monaci richiedevano per concedere lo spazio).  Le famiglie potevano dunque non solo preservare il corpo dei propri cari, ma continuare ad andare a trovarlo e vederlo nelle sue sembianze – quasi – intatte. Come dicevo prima, uno dei corpi più noti è  proprio  quello di Rosalia Lombardo, una bambina. Questa non è l’unica giovanissima ‘ospite’ delle catacombe di Palermo, ma certamente è la più bella. La sua mummificazione infatti è un capolavoro, perché  ancora oggi ha le guancia rosee e paffute, i capelli che le incorniciano il volto, persino le lunghe ciglia. La sua salma risale al 1920, quando il cimitero era ufficialmente stato chiuso, e  per lei si fece proprio una deroga (e anche per il viceconsole degli Stati Uniti Giovanni Paterniti, altro ospite illustre). La mummificazione della piccola Rosalia è stata opera del Dottor Alfredo Salafia, noto per i suoi studi e i suoi metodi sulla conservazione dei defunti, grazie a  una formula ‘miracolosa’ che parve addirittura persa  con la morte del dottore e  recentemente invece  ritrovata su manoscritti appartenuti ai suoi eredi. Basti pensare che quel metodo così efficace e le analisi del cadavere della bimba hanno fatto rilevare  ancora al suo interno la presenza di tutti gli organi interni, e per finire quella che è stata chiamata  la ‘bella addormentata’ riposa oggi  in eterno in una teca high-tech che ne garantisce una ulteriore conservazione.

Ecco cosa  ha scritto su questo museo catacombale il grande scrittore francese Guy de Maupassant; il testo lo riporto in italiano per intero, carico com’è di impressioni e riflessioni:  “ Volli visitare subito questa sinistra collezione di defunti.Alla porta di un piccolo convento di modesto aspetto un vecchio frate cappuccino, col saio marrone, mi accoglie e mi precede senza dire una parola, ben sapendo quel che vogliono vedere gli stranieri che vengono qui. Attraversiamo una povera cappella e scendiamo lentamente una larga scalinata di pietra. Ad un tratto, vedo davanti a noi una galleria immensa, larga e  alta, i cui muri sopportano una vera e propria popolazione di scheletri vestiti in modo bizzarro e grottesco. Alcuni sono appesi affiancati, altri coricati su cinque ripiani di pietra, sovrapposti dal suolo fino al soffitto. Una fila di morti è in piedi sul pavimento, fila compatta le cui teste orribili sembrano parlare. Alcune sono corrose da muffe disgustose che deformano ancora di più le mascelle e le ossa, altre hanno conservato i capelli, altre un po’ di baffi, altre un filo di barba. Talune guardano in su con occhi spenti, talune in giù; eccone che sembrano ridere in maniera atroce, eccone contorte dal dolore; tutte appaiono sgomente da uno spavento sovrumano.  E sono vestiti, questi morti, questi poveri morti schifosi e ridicoli, vestiti dalla loro famiglia che li ha esumati dalla bara per farli sistemare in questa spaventosa assemblea. Quasi tutti indossano specie di tonache nere, il cui cappuccio, talvolta, è tirato sul capo. Ma ve ne sono che si sono voluti vestire in maniera più sontuosa; ed il misero scheletro, con in testa un berretto alla greca ricamato, avvolto in una veste da camera da ricco benestante, disteso supino, sembra dormire di un sonno terrificante e comico. Un cartellino da ciechi che portano appeso al collo reca il loro nome e la data della morte. Tali date fanno rabbrividire fino alle ossa. Si legge 1880, 1881, 1882. Questo è quindi un uomo, o quel che era un uomo, otto anni fa? Questa cosa viveva, rideva, parlava, mangiava, beveva, era piena di gioia e di speranza. Ed ecco qui! Dinnanzi a questa doppia fila di esseri innominabili, sono ammucchiate bare e casse, bare di lusso in legno scuro con decolazioni di ottone e piccoli vetri che consentono di vedere all’interno. Sembrano bauli o valigie di selvaggi, comprati in qualche bazar da quelli che partono per il grande viaggio, secondo l’antica espressione. Ma altre gallerie si aprono sulla destra e sulla sinistra, per prolungare senza fine l’immenso cimitero sotterraneo. Ecco le donne,  più strambe ancora degli uomini, in quanto sono state parate con civetteria. Le teste vi guardano, strette nelle cuffie con nastri e merletti, di un candore niveo attorno ai visi anneriti, imputriditi, corrosi dallo strano lavorìo della terra. Le mani,simili a radici monche di alberi, sporgono dalle maniche del vestito nuovo, e le calze che avvolgono le ossa delle gambe paiono vuote. Talvolta la morta calza soltanto scarpe, scarpe smisurate per i poveri piedi rinsecchiti. Ecco le ragazze, le orride ragazze di bianco vestite, che portano sulla fronte una corona metallica, simbolo dell’innocenza. Sembrano vecchie, vecchissime, tanto sghignazzano. Hanno sedici, diciotto, vent’anni. Che orrore! Ma ecco che arriviamo in una galleria zeppa di piccole bare di vetro – sono i bambini. Le ossa, appena formate, non hanno resistito. E non si capisce esattamente ciò che si vede,  tanto i miseri ragazzi sono deformati, schiacciati ed orrendi. Le lacrime vi spuntano comunque agli occhi, perchè le madri li hanno vestiti con i costumini che indossavano negli ultimi giorni della loro vita. Ed esse tornano a rivederli così, i loro bambini!  Spesso accanto al cadavere, è attaccata una fotografia che lo mostra così com’era; nulla è più impressionante, più terrificante di questo contrasto, di questo confronto, delle idee suscitate in noi da un simile paragone. Attraversiamo una galleria più scura, più bassa, che pare riservata ai poveri. In un angolo buio, sono una ventina insieme, appesi sotto un abbaino che manda loro l’aria di fuori a grandi sbuffi improvvisi. Sono vestiti con una sorta di tela nera annodata ai piedi e al collo, e chinati gli uni sugli altri. Si direbbe che tremino dal freddo, che vogliano scappare, che gridino “aiuto!”. Si potrebbe credere che si tratti dell’equipaggio annegato di qualche sballottata ancora dal vento, avvolto in quella tela marrone ed incatramata che i marinai indossano durante le tempeste, e sempre agitati dal terrore dell’ultimo istante, quando il mare li inghiottì. Ecco la zona dei preti. Grande galleria d’onore! Alla prima occhiata, sembrano più terribili degli altri a vedersi, coperti come sono dei loro paramenti sacri, neri, rossi e viola.  Ma se li considerate uno dopo l’altro, un riso nervoso ed irrefrenabile vi scuote di fronte ai loro atteggiamenti curiosi e tetramente comici. Eccone alcuni che cantano, altri che pregano. Hanno alzato loro il capo ed incrociato le mani. Portano in testa la berretta del celebrante, la quale, posata in cima alla loro fronte scarna, ora si inclina sull’orecchio in modo faceto, ora cade fin sul naso. E’ il carnevale della morte, reso più grottesco  dalla ricchezza dorata dei vestiti sacerdotali. Ogni tanto, dicono, una testa rotola per terra, i legamenti del collo essendo stati mangiati dai topi. Migliaia di topi vivono in quel carnaio umano. Mi mostrano un uomo morto nel 1882. Alcuni mesi prima, allegro ed in buona salute, era venuto a scegliere il proprio posto, accompagnato da un amico: “Sarò lì diceva, e rideva. L’amico torna da solo adesso e guarda per ore intere lo scheletro immobile, in piedi al posto prescelto. Durante alcuni giorni festivi, le catacombe dei Cappuccini vengono aperte alla folla. Una volta, un ubriacone si addormentò all’interno e si risvegliò nel bel mezzo della notte. Chiamò, urlò, sconvolto dallo spavento, corse da tutte le parti, cercando di scappar via. Ma nessuno lo sentì. Lo si trovò al mattino, talmente aggrappato alle sbarre del cancello d’ingresso, che ci vollero lunghi sforzi per staccarlo. Era impazzito. Da quel giorno, hanno sistemato una grossa campana accanto alla porta”. Un museo sotterraneo, che val la pena visitare, come hanno fatto sia intellettuali che popolo tra Ottocento e Novecento. La visita fa ridimensionare tutto e fa sentire o risentire uomini chi se ne fosse dimenticato.

Carlo Franza

 

 

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