Le “Chartae” di Armando Marrocco in mostra alla Storica Galleria L’Osanna di Nardò. Un capitolo di superbo valore, narrante un mondo di geometrie.
“Chartae” è il titolo della mostra di Armando Marrocco, artista di chiara fama, in corso nella storica Galleria L’Osanna di Nardò di Riccardo Leuzzi che da anni lavora con preziosa professionalità ed ha avuto sempre la mia accensione critica intorno al lavoro proposto, di artisti italiani e stranieri. Questa è una mostra particolare, nel senso che dell’artista Armando Marrocco che in questa galleria aveva campionato capitoli importanti del suo lavoro, oggi ritroviamo carte disegnate, appunti di lavoro, schizzi, carte dipinte. Vi confesso che per le carte di un artista ho sempre avuto un’attenzione senza confini, perché ritengo che il lavoro su carta non sia meno prezioso e poetico di altri lavori. L’artista salentino è tornato nella sua terra per accendere questa mostra natalizia, con ventuno opere che risplendono di luce propria. Ventuno opere, talune veri capolavori, realizzate tutte negli ultimi sessant’anni, su quel fragile supporto che è la pagina/foglio sulla/sul quale il segno e la macchia assumono la consistenza del disegno e dell’immagine, narrati in diverse varianti, dalla scansione del bianco e del nero fino alla compresenza di cromìe personali e di stesure verbali. Leggiamo nella velocità esecutiva del gesto, nei tratti/ritratti, nei tracciati delle consuete dimore e nei miti, ma anche nelle rigorose “geometrie dell’universo” (così titolai in quel di Brescia una mostra negli anni Novanta con Perilli, Le Parc, Bonalumi, Torquinst, Eielson, Keizo e altri), negli intrecci, nei luoghi, negli epitaffi, nella stampa a bocca o addirittura “masticata” il faro e la persistenza dell’idea. Un’idea infinita, come infinita brilla l’ intelligenza creativa di Armando Marrocco.
Di grande emozione quella carta che ha per titolo “nuovo universo”, un amalgama di colore latteo in cui navigano dei buchi neri. Và da sé che il disegno in un artista di tanta larga cultura, qual’è Armando Marrocco, fa scoprire il medesimo travaglio e addirittura le alterne dominazioni creative che spesso troviamo nei suoi linguaggi aniconici e nella sua scultura. Faccio mia quella bella frase del grande critico Ugo Ojetti del Corriere della Sera: “ A dire che il colore è il linguaggio dei sensi e il disegno è il linguaggio dell’intelligenza, si dice male perché nei grandi, si chiamino Piero della Francesca o Tiziano, colore e disegno non sono così separati, anzi opposti come i trattatisti credono o dicono”.
Come la pittura e la scultura, anche il disegno di Armando Marrocco ha saputo coincidere con le ispirazioni dell’uomo, con quel guardarsi attorno, con quell’attingere dal quotidiano, da ciò che gli suggeriscono ritmi, forme e colori, non superficiali, tra il fascino del bello e l’espressione essenziale. I fogli di Armando Marrocco sono rivelazioni sensibili, che sviluppano la sua tendenza a uno psicologismo della forma, dove il disporsi elementare delle scene si traduce in una tormentosa visione di intrecci, di affioramenti lineari, di interventi segnici che tendono al nervo della struttura rappresentata, senza complicazioni dinamiche, senza sortite di esibizione. Opere che sfruttano esperienze depurate, quasi di ansia che percorre come un brivido il reticolato dei segni. L’esercizio avviene sui bianchi fogli con schizzi a inchiostro, grafite, macchie di colore, in un gioco di composizioni, nelle loro consistenze, più tenui a volte, più dense in altri. Ne fa apprezzare la semplicità, il decoro della forma senza molteplici aggettivazioni, con larghezza emotiva, combinando sensi di profondo e solenne rispetto per il vero. Le sagome esterne, le sequenze dei movimenti e delle curve, la sottile modificazione di un certo linea di linea e in uno spessore che fa rilevare le ombre, danno ai soggetti un aspetto grafico e pittorico insieme. Armando Marrocco in questa bellissima mostra che ha per titolo “Chartae” lavora al confine tra la densità, la resistenza della materia e la possibilità del suo dissolvimento, della penetrazione nell’astratto, in un puro disporsi di linee e colori che hanno solo l’indizio di quanto era concreto, oppure solo valori spaziali. Fogli che appartengono più che a un periodo unitario, a più anni dispersi nell’intero percorso di lavoro, dove appaiono chiari il bisogno dell’appunto, la prepotenza della necessità al foglio, al segno, alla meccanica povera del bianco e nero, all’architettura lineare dei corpi astratti rappresentati e anche a quelle forme che aveva sempre vestite di pittura. Una squadrata semplicità, densa e forte, miracolata nell’insieme, ricerca d’una linea, di una costruzione, d’un equilibrio tra pieni e vuoti, di accensioni e ombre, di simmetrie e scansionamenti, pur nell’irrinunciabile vocazione alla sottolineatura tonale che a mio avviso gli proviene da Yves Klein, come se pure il tratteggiare e delineare sagome debba essere il ricordo oltre che per una posizione plastica, per una determinata luce.
Carlo Franza