Mi ritrovo a recensire il libro di uno dei maggiori sociologi del mondo, se  non  il padre  della Sociologia italiana, essendo oggi  Franco Ferrarotti  professore emerito  di Sociologia all’ Università Statale “La Sapienza” di Roma, dove l’ebbi docente -e con il quale mi laureai- nella mia seconda laurea  che è per l’appunto in Sociologia.  Ora ho tra le mani il suo libro “L’uomo di carta. Archeologia di un padre”(Marietti, 2019,pp.165), che non è beninteso un libro scientifico di sociologia, ma un testo-diario,  che è avvolto certo  nel “sociale”, giacchè sonda  la storia dell’uomo e del professor Franco Ferrarotti (classe 1926), oggi ultranovantenne,   dall’infanzia nel suo vercellese alla luce dell’educazione paterna, -del padre suo uomo di terra, e di terra solida-, fino alla carriera universitaria in giro per il mondo (Chicago, Boston, New York, Toronto, Mosca, Varsavia, Colonia, Parigi, Tokyo,  Gerusalemme, e Roma -La Sapienza)  e politica, essendo stato    deputato indipendente al Parlamento italiano dal 1958 al 1963.  E’ un libro affascinante e curioso, perché sfoglia un mondo che non c’è più, o meglio un mondo dove vi era una certa educazione, un certo modo di relazionarsi, un certo modo di vivere che non è più oggi presente e scandito. Quella frase “sarai sempre e solo un uomo di carta” era la sentenza forte che il padre rimproverava al figlio giovane e malaticcio, lì  nella  Bassa Vercellese, nel pieno di anni  durissimi: “Quest’uomo piuttosto taciturno, che a occhio riusciva a stabilire con precisione il peso di un cavallo, si sbagliava, ovviamente, a proposito della mia tenuta vitale. Ed è bello constatare che  anche i padri, qualche volta e forse più di una volta, si sbagliano. Poco più tardi, tuttavia, quando non ero neppure pubere, e mi sbirciava di sottecchi, vedendomi affondare e perdermi in mezzo ai quaderni, ai taccuini e ai libri aveva certamente ragione. Scuotendo il testone stempiato, farfugliava fra sé e sé, ma abbastanza distintamente perché lo potessi udire: “Poveretto, perso in mezzo alla polvere e agli scartafacci… Non sarai mai niente. Non diventerai niente. Sarai solo un uomo di carta”. Un padre torvo e silenzioso, il suo, vivo   e votato a lavorare nella Bassa Vercellese, fra  gli odori  e i vapori delle risaie e gli squarci delle colline del Monferrato. Così Ferrarotti lo ricorda rapportandolo alla terra, a quella “roba”  descritta da Verga   nelle pagine del suo capolavoro: “Seppi che mio padre se ne stava andando mentre ero in giro per il mondo. È morto per un generale collasso cardiaco e funzionale; pare che avesse i polmoni incatramati, per così dire, non più in grado di ossigenare il sangue. Io avevo da poco superato i trent’anni. Mi dispiace che non ci sia stato il tempo di mettere in chiaro la nostra differenza: tra me, uomo del libro, e lui, uomo della Natura, al quale, la sera, quando tornava a casa, i cavalli e tutte le altre bestie andavano incontro, quasi a salutarlo con nitriti e strepiti, e lui li accarezzava, tranquillo, borbottando incomprensibili saluti”. Il padre è stato sempre presente nella vita del professor Ferrarotti, già quand’era piccolo, poi in adolescenza,  e da adulto  il figlio non si è mai separato dal padre. Ha girato il mondo, non l’ha visto per tanti anni, ma l’ha tenuto dentro di sé, l’ha portato con  sé. Basti pensare a queste parole commoventi, di solido rapporto, di robusto affetto e solidarietà ;   scrive  Ferrarotti: “Nella campagna elettorale per la terza legislatura, 1958-1963, ero candidato nella Prima Circoscrizione (Torino-Novara-Vercelli) per il Movimento Comunità. Battevo città e paesi, con scarse risorse e un’organizzazione alquanto fragile, di fatto inesistente. Una sera dovevo parlare nella piazza principale di Trino. Il comizio si annunciava tempestoso. I grandi partiti di massa occupavano all’epoca tutto lo spazio politico disponibile e non gradivano candidati ‘indipendenti e scomodi’. Mio padre, senza dir niente a nessuno, uscì di casa avvolto nel pesante mantello nero delle grandi occasioni. Sotto il mantello nascondeva un grosso coltello, usato di solito per scuoiare i maiali. Se qualcuno si fosse azzardato a obiettargli qualcosa, borbottava, riferendosi al mio discorso e a probabili interruzioni, “io non ci metto niente a sbuscicarlo”, cioè a sbudellarlo dai coglioni alla gola. Era il suo modo di manifestarmi affetto a oltranza, solidarietà al di là di tutto”.  Ma nel  libro, troviamo l’amore per i libri (“Confesso senza pudore di amare i libri di un amore sensuale, fisico…”), c’è il racconto del paesaggio e della sua terra piemontese, degli animali e dei giochi d’infanzia,  dello zio Leopoldo monsignore e cugino della madre, dei bisnonni  di Robella, il suo lavoro di traduttore da Einaudi, dei quattro fratelli con rispettive moglie e compagne. Fa specie -ma in senso positivo- che Ferrarotti si confessi dicendo: “mi è andata bene la sociologia. L’ho reinventata. Ho ottenuto la prima cattedra”. Come non sfugge il consiglio  che Geno Pampaloni  “buon critico letterario” e collega de Il Giornale sulle pagine della Cultura” nei tempi montanelliani, consigliva a Ferrarotti con “Attento Franco. Vuoi Andartene in America. Attento, stai dando un calcio  a un pezzo di pane”( il posto del più giovane dirigente Olivetti).  E infine devo concludere che in tutto questo diario di una vita non c’è pagina che non trasudi  l’affetto per il padre, il suo: “Di lui mi affascinavano il silenzio, la tenacia, la decisione nell’azione. Ma in lui non c’era nulla di amichevole: era il padre, non un amico. Questo conferiva al nostro rapporto una solidità data per scontata, un fatto naturale, non da inventarsi e dichiararsi tutte le mattine. Si comunicava semplicemente sedendo alla stessa tavola, guardando gli stessi paesaggi, i campi ondeggianti come oceani nella tarda primavera; lo stormire dei pioppi, in tutto simili a una selva di canne d’organo. I nostri contrasti scavavano più a fondo, intaccavano la psiche”.

Carlo Franza

 

 

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