Le pitture delle Domus di Cremona in mostra al Padiglione Andrea Amati del Museo del Violino a Cremona.
È una mostra di storie, oltre che di Grande Storia, quella che il Museo Civico Archeologico di Cremona, in collaborazione con la Soprintendenza di territorio, espone fino al 21 maggio 2023 al Museo del Violino, a cura di Nicoletta Cecchini, Elena Mariani, Marina Volonté. A esplicitarlo è già il titolo: “Pictura Tacitum poema. Miti e paesaggi dipinti nelle domus di Cremona”, che si rifà alla celebre frase attribuita a Cicerone “Si poema loquens pictura est, pictura tacitum poema esse debet” (“se la poesia è una pittura parlante, la pittura dev’essere una poesia silenziosa”).
Grande Storia, come quella della terribile “Battaglia di Cremona” che nel ’69 dopo Cristo, l’”Anno dei 4 Imperatori”, abbandonava sulle rovine della città, “una catasta di corpi che sfiora in altezza i frontoni del tetto”, come annotò Plutarco. Storie, come quelle splendidamente raccontate sui muri delle ricche residenze cremonesi, dilaniate dalla violenza della battaglia e annerite dagli incendi. Testimoniate da migliaia e migliaia di frammenti riemersi, un ventennio fa, dal sottosuolo. Frammenti recuperati, catalogati, in parte restaurati e, per quanto possibile, riconnessi. A ritrovare le scene affrescate che impreziosivano le domus cremonesi. Storie, come quelle dipinte nella “Stanza di Arianna” dalla Domus del Ninfeo. I tre grandi affreschi di epoca augustea raccontano altrettanti momenti del mito cretese: prima abbandonata da Teseo dopo l’impresa dell’uccisione del Minotauro, in seguito scoperta da Dioniso addormentata sulla spiaggia dell’isola di Nasso, Arianna appare infine sposa trionfante del dio stesso. Le pitture ritrovate nel 2002 negli scavi di piazza Marconi, e in quelli successivi, testimoniano di una raffinata cultura artistica e, insieme, le tante storie della casa e le passioni dei suoi proprietari. Accanto al tema di Arianna, gli affreschi cremonesi riportano a quelli del culto dei lari ed evidenziano un gusto per l’Egitto, entrambi temi ben rappresentati negli affreschi della Domus di Candelabri dorati, altra sfarzosa residenza cremonese oggetto della mostra. Al larario dipinto sulle pareti di questa domus vengono affiancati in mostra preziosi bronzetti votivi dall’Archeologico di Mantova, e Lari da quello di Ostia insieme a un dipinto con il medesimo soggetto da Pompei. Così come il fregio cremonese con nani e pigmei viene raffrontato a una analoga raffigurazione da Ostia. Le rappresentazioni di gusto nilotico ci raccontano di come, già in epoca antica, il fascino della civiltà egizia riscuotesse ampio seguito. Anche qui un importante raffronto con reperti egizi concessi dall’Archeologico di Firenze. Come gli affreschi pompeiani, concessi dal Museo Nazionale Archeologico di Napoli, propongono un confronto visivo sul Mito di Arianna. Sullo stesso tema, lo splendido coperchio di sarcofago proveniente dalla Villa d’Este di Tivoli e una testa rinascimentale di Arianna dormiente, da Firenze. A completare questa emozionante mostra sono la ricostruzione immersiva della Stanza di Arianna e una serie di postazioni video che documentano le vicende di scavo nella Cremona Romana e il lavoro di restauro e ricerca che sui reperti sono stati condotti dal Centro per la Conservazione e Restauro de “La Venaria Reale” e dal Laboratorio Arvedi dell’Università di Pavia. Il naturale completamento del percorso espositivo allestito al Museo de Violino è offerto nel Museo Archeologico in San Lorenzo. Qui i brani della vicenda romana cremonese trovano il loro completamento.
Roma e Cremona. Sebbene Cremona sia la più antica colonia romana fondata a nord del Po, tale eredità risulta qui più nascosta rispetto a quanto accade in altre città, dove lo scorrere del tempo ne ha preservato monumenti e tracce tangibili. L’archeologia però è in grado di fare emergere dall’ombra questo passato, anche se in frammenti, che con paziente tenacia vengono accostati per ricostruire il quadro completo. Le ricerche degli ultimi cinquant’anni hanno così permesso di conoscere gli antichi abitanti della città tramite le loro case e gli oggetti in esse conservati, mettendo in evidenza lo stretto legame con Roma: sappiamo oggi che gusti e usanze diffusi nella Capitale erano nello stesso momento presenti anche a Cremona. La decorazione pittorica risulta estremamente significativa per comprendere questo ambito culturale: ci permette infatti da un lato di ricostruire i modelli e le raffigurazioni che la moda proponeva e ad accostarle a quelle di Roma e di altri importanti centri urbani, ma nelle scelte effettuate ci aiuta anche ad intravedere le storie dei committenti, che si rispecchiavano nei miti e nelle scene riprodotti. Gli straordinari rinvenimenti effettuati in città pertinenti a residenze private ci guidano quindi, come il filo di Arianna, alla scoperta dei Cremonesi del passato.
Le Domus di Cremona. Le domus, con i loro apparati decorativi spesso di pregio, costituiscono ad oggi l’elemento meglio conosciuto dell’archeologia cremonese: sin dagli anni ’30 del Novecento, infatti, sono emerse dal sottosuolo parti di pavimenti a mosaico e di murature, testimonianza delle residenze private di un’ élite cittadina colta e raffinata. Queste abitazioni sembrano concentrarsi in alcune zone della città, che possiamo interpretare come veri e propri “quartieri residenziali”. Due di questi si trovano a nord del decumano massimo, rispettivamente a nord-est e a nord-ovest dell’incrocio con il cardo. Il primo, che si sviluppa intorno all’attuale piazza Roma, è adiacente all’ipotizzata area forense e da questa posizione doveva trarre particolare prestigio; il secondo, nell’area delle odierne vie Anguissola, Capra, Plasio e Cadolini, ha restituito tra gli altri i pavimenti della casa del Labirinto, così detta dal piccolo ambiente a mosaico raffigurante il labirinto cretese con la scena dell’uccisione del Minotauro da parte di Teseo. A ridosso delle mura, rispettivamente lungo il lato occidentale e meridionale, si trovavano invece le due domus, non meno lussuose, da cui provengono i resti di affreschi esposti in mostra. Gli scavi, entrambi recenti, hanno permesso di recuperare un’ingente quantità di materiali e di acquisire importanti informazioni sulle fasi cronologiche, le planimetrie e l’organizzazione interna delle case di Cremona romana.
La Domus del Ninfeo di Piazza Marconi. La più imponente e raffinata tra le domus che occupavano l’isolato in cui oggi sorge piazza Marconi prende il nome dalla fontana monumentale decorata a mosaico che ne ornava il cortile principale. La domus, costruita intorno al 40-20 a.C., si trovava lungo la via che percorreva la città in senso nord-sud, il cardo massimo, presso la porta meridionale, e si affacciava sul corso del Po che scorreva poco distante. Pur nello stato di estrema frammentarietà causato dalla distruzione del 69 d.C., lo scavo condotto negli anni 2000 ha portato alla luce resti degli apparati decorativi (pavimenti e pitture) e numerosi oggetti di arredo, che ci restituiscono l’immagine di una residenza lussuosa, certamente appartenuta a una delle famiglie più in vista della città. Secondo un’ipotesi suggestiva, era forse quella di Alfeno Varo, giureconsulto di origine cremonese che ottenne a Roma il titolo di consul suffectus, una delle più alte cariche politiche del tempo.
La Domus dei Candelabri dorati. Nata nei primi decenni del I secolo d.C. dall’unione di due abitazioni più antiche, la Domus dei Candelabri dorati racconta con le sue diverse fasi edilizie i gusti e le vicende dei proprietari. La pianta della casa è stata ricostruita grazie a recenti scavi condotti tra via Colletta e via Manna. Si tratta di una vasta dimora, voluta dal dominus come specchio del suo potere e della sua ricchezza: le strutture esistenti furono ampliate con la costruzione di diversi nuovi ambienti, articolati intorno ad un peristilio centrale. Per la decorazione furono scelti affreschi con raffigurazioni alla moda, tra cui spiccavano scene ambientate sul Nilo e i candelabri dorati, che danno il nome alla domus; furono conservati però anche i raffinati pavimenti antichi che appartenevano alle abitazioni della fase precedente, visibili oggi al Museo archeologico di san Lorenzo. Diverse sono le ristrutturazioni del complesso, l’ultima delle quali era in corso al momento dell’abbandono dell’edificio, nella seconda metà del I sec. d.C., come indicano i cumuli di calce ritrovati nell’atrio e le vasche in laterizi per la preparazione dell’intonaco.
Le decorazioni pittoriche della Domus dei candelabri dorati. Lo scavo delle domus di via Colletta ha portato alla luce numerosi frammenti di intonaci dipinti che, a studio e restauri ancora in corso, si è deciso di presentare in mostra per il loro grande interesse archeologico, storico e artistico. Sono infatti testimonianza preziosa delle diverse fasi di vita della residenza e delle sue trasformazioni estetiche. Trasformazioni che hanno portato alla scomparsa totale delle decorazioni più antiche per lasciare spazio a pitture stilisticamente più aggiornate, riflesso del gusto e delle mode in atto nella prima metà del I secolo d.C., adatte alle diverse funzioni attribuite agli ambienti in cui venivano realizzate.
L’ Atrio e il Culto dei Lari. L’atrio, collocato nella zona d’ingresso della domus romana, rappresenta il passaggio tra esterno ed interno, spazio domestico che costituisce un confine tra pubblico e privato. Al tempo stesso esso è il centro della casa, intorno al quale si organizzano tutti gli ambienti e dove in origine si conservava il focolare (da, qui secondo alcuni, la derivazione del termine atrium da atrum– nero, scurito dal fumo). E’ in questo ambiente quindi che spesso si colloca il larario, apprestamento dedicato al culto delle divinità protettrici della casa, i Lari, spiriti degli antenati divinizzati. A essi vengono rivolti quotidianamente sacrifici e offerte presso edicole o nicchie che ne ospitano la raffigurazione, sia come rappresentazioni pittoriche, sia in forma di piccole statue bronzee. I Lari vengono ritratti come giovani danzanti, vestiti di tunica a maniche corte, con alti calzari e caratterizzati dagli strumenti per il sacrificio (molto comuni patere o vasi per il vino), che portano in mano insieme a simboli di prosperità, quali la cornucopia. Spesso sono accompagnati dagli assistenti al sacrificio, i camilli, anch’essi raffigurati come giovani in tunica. Nel larario trovano posto anche le raffigurazioni di altri dei o oggetti di culto particolarmente cari alla famiglia.
Le Pitture dell’Atrio. Le pitture dell’atrio della Domus dei Candelabri Dorati sono il riflesso delle sue tante, talora per noi ancora oscure, vite. Al suo interno, come in una sorta di grande discarica di macerie, sono stati trovati intonaci attribuibili a diverse zone dell’ambiente e delle sue adiacenze, i cui rapporti reciproci sono ancora in parte da chiarire. Elemento comune resta la loro grande qualità e la cura nella realizzazione dei motivi.
Se lo zoccolo dell’ambiente sembra essere stato molto semplice nel suo colore nero uniforme, la zona mediana dipinta in rosso brillante ha offerto alloggio, non sappiamo ancora in quale momento, alle immagini di plastici candelabri dorati, ricchi di appendici sontuose a sostegno di volatili di varia natura. Nella zona alta si potevano scorgere una serie di riquadri con scene nilotiche che trasportavano gli ospiti verso mondi esotici di non semplice accesso ed esprimevano i vasti interessi culturali del proprietario. In un ambiente vicino, invece, una pernice in movimento tra arbusti raffigurata sullo zoccolo li riportava ad immagini più adatte alla quotidianità della provincia cremonese.
Un Porticato dipinto. L’annessione di un precedente edificio da parte del proprietario della Domus dei Candelabri Dorati, consentendogli un ampliamento alla moda con l’inserzione del peristilio, gli impose anche un restyling pittorico della dimora. Nascono così le decorazioni a pannelli rossi e scomparti neri che, se pertinenti al peristilio medesimo, ben avrebbero ritmato il passo di coloro che lo percorrevano discorrendo, come usava fare nelle case dei romani più ricchi. Potevano suggerire loro anche temi di conversazione colta a partire dall’osservazione dei quadri figurati – opera di un artista di mano sapiente vicino ai modelli estetici delle classi più abbienti in Roma – qualora essi ne abbellissero i pannelli al centro. Funzione non diversa avrebbero assunto anche se dovessimo pensarli collocati tra le belle colonne qui esposte che potevano costituirne la quinta, all’interno di un ambiente di ricevimento aperto sul peristilio. Della collocazione originaria del grande frammento con pigmei, adatto a essere parte di un fregio sia nel peristilio che all’interno di un ambiente di maggior prestigio, e del significato che gli attribuiva il committente nulla sappiamo. Possiamo solo farci sedurre dalla allegra bellezza della scena festosa di danza lungo le sponde del Nilo che vi è dipinta e dall’incanto, quasi favolistico, che emerge dai suoi personaggi.
Le decorazioni pittoriche della Domus del Ninfeo. Lo scavo della Domus del Ninfeo ha permesso il recupero di un numero incalcolabile di frammenti di intonaco dipinto, sparsi per l’intera area di scavo spesso lontani dalle stanze nelle quali erano stati realizzati. Il loro studio ha rivelato momenti della sua lunga storia dei quali non restava alcuna evidenza archeologica. La violenta distruzione e le vicende successive, durante le quali le decorazioni, divenute macerie, erano state spostate o riutilizzare come sottofondo per le nuove costruzioni, ne hanno paradossalmente garantito la sopravvivenza fino ai nostri giorni, rivelando ciò che non avremmo mai potuto immaginare. Le pitture di tutte le fasi del II stile pompeiano – che decoravano l’atrio e i suoi annessi – hanno dimostrato l’antichità di questa Domus, esistente dagli inizi del I secolo a.C., la sua ricchezza estrema, la raffinatezza e la consapevolezza sociale del primo dominus che voleva offrire ad amici e clientes pitture uguali a quelle esibite nelle case degli uomini più potenti di Roma. E la seconda generazione della famiglia, che non a caso ha mantenuto anche le vecchie prestigiose decorazioni simbolo della sua antichità, non è stata da meno con le magnifiche pitture del triclinio invernale (quasi del tutto perdute), che ha eguali solo in quello della Villa di Livia a Prima Porta, e del cubicolo della domina, che noi oggi chiamiamo Stanza di Arianna.
Le decorazioni di gusto egittizzante. L’Egitto ha esercitato, fin dall’età repubblicana, un fascino estremo sui Romani. Dapprima noto forse attraverso la mediazione letteraria greca e poi attraverso contatti commerciali che portarono anche all’afflusso in Roma dei primi artisti alessandrini, influenzò le produzioni artistiche romane soprattutto a partire dal I secolo a.C. Dopo la conquista dell’Egitto da parte di Augusto tale interesse si accentuò moltissimo, trovando numerose manifestazioni anche in pittura, secondo due temi iconografici differenti: il “filone faraonico” che prende spunto dalle immagini religiose, civili e persino dai geroglifici con i loro fascinosi grafismi per giungere a una trasformazione che li rende spesso irriconoscibili; il “filone nilotico” che ambienta scene di genere lungo il corso del fiume.
I materiali esposti testimoniano entrambe le tendenze. L’ambientazione nilotica si esprime nei paesaggi dall’atrio e nei pigmei dal peristilio della Domus del Candelabri dorati, mentre i frammenti delle cornici del larario riproducono rigidamente motivi sacri (loti e urei) divenuti puri ornamenti. Motivi simbolico-religiosi, vegetali e figurati, pullulano sulle pareti del cubicolo di Arianna, come espressione di adesione culturale e politica al modello dominante in Roma nelle case della famiglia di Augusto e soprattutto nel suo Studiolo, con il quale hanno legami manifesti e sorprendenti.
Il cubicolo di Arianna. Il cubicolo di Arianna era forse la stanza da letto della domina della Domus del Ninfeo. Al primo piano, nella parte più intima e isolata dell’abitazione, aveva l’accesso da un ballatoio affacciato sul peristilio e prendeva luce e aria da aperture verso il giardino. La sua divisione interna in due zone funzionali distinte, l’alcova con il letto per il riposo e l’anticamera, una sorta di salotto privato per il ricevimento di pochi eletti, era sottolineata dalla decorazione pittorica e musiva. Una fascia a meandro sul pavimento marcava la separazione, ribadita dalle pitture, in cui prevalevano il bianco e il nero nell’alcova e il rosso squillante del cinabro nell’anticamera, destinato ad avvolgere, in una nota preziosa, lo splendore dei tre quadri con il mito di Arianna. Lei sola era la protagonista: nel primo quadro amante disperata e sconfitta, abbandonata sull’isola di Nasso da Teseo, nel secondo scoperta in tutta la sua affranta bellezza da un Dioniso vittorioso e pronto a renderla, nel terzo quadro, per sempre trionfante sua sposa. La diffusione del mito cretese nei testi letterari dell’età augustea, cui appartengono gli affreschi, fa intravedere la suggestiva immagine di una domina colta e appassionata lettrice che qui si ritirava, sola o in compagnia, per lasciarsi avvolgere dai versi dei maggiori poeti del suo tempo e dalle immagini che un grande pittore le aveva regalato.
La bellezza in frantumi. La Stanza di Arianna, che si trovava al primo piano della Domus del Ninfeo, precipitò con tutte le sue decorazioni al piano sottostante in seguito alle devastazioni, compreso un incendio, subite dalla intera dimora durante il saccheggio di Cremona nel 69 d.C. La caduta, il passaggio a caccia di tesori dei soldati prima e dei sopravvissuti al disastro poi e, molti secoli dopo, la costruzione del Convento di Sant’Angelo hanno causato la perdita di almeno metà dei meravigliosi affreschi che decoravano le sue pareti e dell’intero delicatissimo soffitto in stucco dipinto e a rilievo. La parte sopravvissuta di tanta bellezza costituisce comunque un piccolo miracolo per importanza storica, rarità e qualità artistica. Proprio questo spiega e giustifica il lungo e paziente lavoro di assemblaggio, studio e restauro in atto da quasi venti anni. Si è trattato e si tratta di cercare di riconnettere, quando possibile, o anche solo di riavvicinare, quando non lo è, motivi decorativi disgregati e sparpagliati ovunque dalla furia degli uomini e della storia, per renderli comprensibili e offrire alla bellezza perduta il tributo che merita, restituendola allo sguardo del presente e garantendone la sopravvivenza per quello del futuro. Fin dall’antichità, l’uomo si è dedicato alla ricerca di materiali colorati e duraturi che potessero essere usati come pigmenti per l’arricchimento cromatico delle superfici e dei manufatti. I pigmenti più antichi venivano ottenuti dalla macinazione delle terre minerali, naturalmente presenti in alcuni terreni e che presentano una colorazione variabile dal rosso al giallo, e verde. Lo sviluppo tecnologico delle civiltà ha successivamente permesso di aggiungere alla tavolozza un numero crescente di colorazioni, grazie a pigmenti e coloranti artificiali ottenuti dalla trasformazione delle materie prime. Nella pittura murale romana veniva utilizzato un numero limitato di colori, sia di origine naturale che artificiale: tra i più importanti ci sono il rosso cinabro, le cui elevate qualità estetiche e pittoriche lo rendevano estremamente pregiato, ricercato e molto costoso, e il blu egizio, prodotto per la prima volta dagli antichi egizi ma considerato il pigmento sintetico più importante conosciuto dai romani.
In occasione della mostra il Laboratorio Arvedi di Diagnostica Non Invasiva dell’Università di Pavia ha condotto una campagna diagnostica su una selezione di frammenti provenienti dai dipinti murali delle domus volta a identificare i pigmenti utilizzati. Lo studio delle pitture murali è stato effettuato attraverso tecniche analitiche non invasive e portatili, tra cui la spettroscopia di fluorescenza a raggi X e la spettroscopia infrarossa in riflessione, fondamentali per il riconoscimento dei diversi pigmenti. I risultati hanno permesso di identificare nei frammenti rossi della Domus del Ninfeo il cinabro e nelle campiture azzurre il blu egizio. Questi due pigmenti erano molto costosi e ricercati in epoca romana e il loro utilizzo ci consente di evidenziare una committenza importante per le decorazioni della domus.
Il Mito di Arianna. Arianna, eroina del mito raccontato dalle pitture del cubiculum cremonese, era figlia del re di Creta Minosse e di Pasifae, colei che, per punizione divina, generò il Minotauro, creatura dalle sembianze in parte umane, in parte taurine. Proprio al Minotauro, confinato nel labirinto appositamente costruito sull’isola grazie all’invenzione di Dedalo, erano offerti in pasto ogni anno sette ragazzi e sette ragazze di Atene, conseguenza di un pesante tributo imposto alla città greca. La volontà di liberare la sua città da tale crudele obbligo spinse Teseo, figlio del re Egeo, già eroe di mitiche imprese tra cui la cattura del toro di Maratona, a partire per mare alla volta di Creta, insieme alle vittime predestinate, per uccidere il Minotauro. Giunto il giovane eroe sull’isola, Arianna se ne innamorò, tanto da aiutarlo nell’impresa di uccidere il mostruoso fratello uscendo indenne dal labirinto, grazie al noto stratagemma del gomitolo rosso che, srotolato, gli consentì di ritrovare agevolmente la via d’uscita. Tuttavia, dopo averla presa con sé nel viaggio di ritorno, Teseo abbandonò la fanciulla sull’isola di Nasso (detta anche Dia). Diverse, a seconda delle fonti, le motivazioni del tradimento: c’è chi racconta che Teseo ripartì dall’isola dopo la morte di Arianna, chi sostiene che fu indotto alla fuga da Dioniso apparsogli in sonno, oppure possiamo pensare che la ragion di stato gli impedì di tornare in patria con la figlia del nemico? Il gesto fu comunque punito: Teseo dimenticò di mutare in bianche le vele nere della partenza, segnale convenuto con il padre per indicare il successo dell’impresa, tanto che Egeo, credendo perduto il figlio, si buttò nel mare che da lui prese il nome. Arianna intanto, secondo la versione più diffusa del mito, disperata e affranta, venne vinta dal sonno e fu così, tra le braccia del dio Hypnos, che la trovò Dioniso, la divinità dell’estasi e dell’ebbrezza, di ritorno dal suo viaggio in India su un carro trainato da tigri. Innamoratosi di lei, Dioniso la chiese in sposa, offrendole come dono di nozze una corona d’oro, che venne trasformata in suo omaggio in una corona di stelle. Arianna, principessa cretese, innamorata di Teseo e da lui abbandonata, infine sposa trionfante del dio Dioniso, è uno dei personaggi più noti della mitologia antica. Dopo la prima comparsa nella letteratura occidentale, nella descrizione della danza cretese raffigurata sullo scudo di Achille nell’Iliade, sarà protagonista di innumerevoli opere in poesia, prosa, musica e nelle arti figurative fino all’età contemporanea. Celeberrimo, solo di qualche decennio più antico rispetto alle pitture del cubiculum della domus del Ninfeo, è il Carme 64 di Catullo, in cui il poeta latino si concentra sull’abbandono di Arianna, dando voce al suo dolore per la fiducia tradita e il patto d’amore infranto da Teseo. Questa lettura del mito avrà lunghissima eco, che si riverbera, agli albori del XVII secolo, nell’opera del compositore cremonese Claudio Monteverdi. Al Sesto Libro di Madrigali appartiene il suo capolavoro più popolare, il celebre Lamento d’Arianna, la versione madrigalistica della sesta scena dell’opera Arianna che egli aveva scritto, sul libretto del Rinuccini, per i festeggiamenti in occasione della celebrazione del matrimonio tra l’infanta Margherita di Savoia e il Principe ereditario di Mantova, nel 1608. Di quest’opera, la seconda in ordine di tempo di quelle composte da Monteverdi, si conserva proprio quest’unica scena.
Arianna e Dioniso. Il mito, da Pompei al barocco.
Il felice epilogo della vicenda di Arianna si ritrova più volte dipinto sulle pareti pompeiane. Nella casa del Bracciale d’oro, Dioniso e Arianna compaiono, insieme a un satiro, sulla parete nord del triclinio, di fronte all’affresco raffigurante le nozze di Alessandro Magno. Nella casa dei Vettii, alla scena con Arianna abbandonata a Nasso dipinta in uno dei cubicula si collega, nel triclinio, quella con Dioniso e Arianna in volo amoroso su uno sfolgorante fondo rosso. Il tema del “trionfo di Bacco e Arianna” conosce un grande successo in epoca rinascimentale. Universalmente noti sono i versi della Canzona di Bacco, il più conosciuto dei Canti carnascialeschi, in cui si esorta a godere pienamente delle gioie della vita, nella consapevolezza della loro fugacità. In pittura, è dedicato alla coppia il secondo dipinto del ciclo dei Baccanali eseguito da Tiziano per il Camerino d’Alabastro di Alfonso I d’Este, duca di Ferrara, ora alla National Gallery di Londra, mentre un “Trionfo di Bacco e Arianna” è dipinto da Annibale Carracci sul soffitto della Galleria di Palazzo Farnese a Roma. L’iconografia si ritrova nei secoli successivi, per esempio nel settecentesco “Bacco e Arianna” di Giambattista Pittoni al Museo del Louvre.
Carlo Franza