Con una selezione di  dipinti a olio e opere su carta provenienti da istituzioni e prestigiose raccolte private, la mostra offre uno sguardo esaustivo sul percorso artistico del genovese Pietro Gaudenzi (1880-1955) tra i pittori più apprezzati del suo tempo.

Dagli anni della formazione tra La Spezia, Genova e Roma fino a quelli del ritiro, in maturità, nel borgo di Anticoli Corrado, Gaudenzi rimase sempre fedele a una figurazione novecentista e realista, estranea ai formalismi delle avanguardie.

Attraverso la ricerca di un confronto diretto con la    pittura  antica, riletta al filtro di una sensibilità novecentesca, Gaudenzi affrontò nelle sue composizioni i maggiori temi della tradizione: ritratti, scene d’intimità domestica, maternità, nature morte e, soltanto di rado, paesaggi. Protagonisti assoluti dell’universo visivo di Gaudenzi sono i membri della sua famiglia: la prima moglie, Candida Toppi, morta prematuramente nel 1920, i loro figli e quelli avuti dal secondo matrimonio con la cognata Augusta Toppi. Comprensibilmente la morte della prima consorte segnò indelebilmente la vita del pittore, influenzandone la produzione e la scelta dei temi. Dopo il ’20 Gaudenzi esplorò con maggior frequenza i temi sacri e la pittura   religiosa.

L’apprezzamento dimostratogli dalle più alte cariche dello Stato durante il ventennio fascista (nel 1936 vince il Premio Mussolini, nel 1939 viene nominato Accademico d’Italia, nel 1940 il Premio Cremona, nel 1942 il Duce gli commissiona un ritratto) gli costò l’inevitabile oblio dopo la fine della Seconda guerra mondiale. A lungo dimenticato dalla letteratura storico-artistica, nonostante l’ampia partecipazione ai maggiori eventi espositivi fra le due guerre, è oggi al centro di un crescente interesse da parte degli studi: con un taglio monografico, snodato attraverso sezioni tematiche, la mostra si propone quindi come una prima ricognizione dell’opera del pittore, necessaria per una migliore comprensione della sua riscoperta.

Il  Mart  presenta fino al 1 settembre 2024 tutte insieme per la prima volta opere provenienti da collezioni pubbliche e private tra cui si segnalano nove lavori provenienti dal Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci di Milano. Appartengono a questo generoso prestito anche il grande Battesimo del 1932 e il Ritratto di Guido Rossi (1925), tra i maggiori committenti di Gaudenzi.

Tra le rarità della mostra spicca La mia scuola di Napoli, una tela   del 1938 circa, mai esposta prima in un museo pubblico. Il  dipinto raffigura l’atelier di Gaudenzi all’epoca in cui insegnava pittura  all’Accademia di Belle Arti di Napoli e rappresenta anche uno dei suoi rari nudi.

Suddiviso in cinque sezioni dedicate rispettivamente alla pittura degli affetti, all’arte sacra, al periodo milanese, alla tecnica pittorica, il percorso espositivo si chiude con una cospicua rassegna di stupendi disegni colorati riferiti al ciclo di affreschi per il Castello dei Cavalieri di Rodi.

Il percorso della mostra

Gli affetti famigliari.

I temi relativi agli affetti famigliari e all’intimità domestica ricorrono con frequenza nella produzione di Pietro Gaudenzi. Già negli anni Dieci l’artista realizzò una serie di dipinti raffiguranti scene di vita quotidiana, per i quali posarono la moglie e i figli Enrico, Giuliana e Ruggero. In linea con il gusto allora in auge a Roma, queste opere sono caratterizzate da atmosfere ovattate e melancoliche: la pennellata è carica di materia, rapida e vibrante, mentre la tavolozza brilla di una gamma cromatica variegata. È evidente, in questa fase, il suo debito nei confronti della pittura di maestri del primo Novecento come Antonio Mancini e Armando Spadini.

Nel 1920 due tragici eventi lo segnarono profondamente: a distanza di pochi mesi l’una dall’altro morirono l’amata moglie e il piccolo Ruggero. Il loro ultimo ritratto rimase incompleto. Gaudenzi si limitò ad aggiungere un’aureola attorno al capo della donna e a racchiudere il dipinto in una cornice dorata fatta realizzare dall’ebanista Ettore Zaccari, trasformandolo in una vera e propria icona votiva. Lo intitolò “Il quadro interrotto”.

I dipinti e i pastelli realizzati all’indomani del lutto vedono l’artista tornare alle armonie di toni bruni degli esordi, caricati inevitabilmente di un accento malinconico. Il tema della maternità, attraverso cui aveva sempre espresso l’armonia della vita domestica, assume così quel valore sacrale che sarà il tratto distintivo di tutta la sua pittura.
Un tono austero hanno invece i dipinti per i quali posa la sua seconda moglie, Augusta Toppi, sorella di Candida, da cui l’artista ebbe i figli Jacopo e Maria Candida. Il tema della madre è ora interpretato in una rinnovata accezione, in linea con l’immaginario promosso dal governo fascista: la donna è l'”angelo del focolare domestico”, la matrona forte e robusta, protettrice dei figli.

L’arte sacra.

Nel 1934 si inaugurava a Roma la seconda edizione della Mostra Internazionale d’Arte Sacra, dove Pietro Gaudenzi aveva una sala personale con quindici opere, tra oli, affreschi e pastelli. L’artista presentava così gli esiti delle ricerche condotte nell’ultimo quinquennio, attraverso le quali dava conto di una rinnovata concezione di spiritualità cristiana. Tra le opere in mostra vi erano due versioni del Battesimo: quello qui esposto, appartenuto a Guido Rossi, in cui l’artista indugia sulla sensualità materica nella resa del nudo e dei dettagli graziosi, e quello oggi a Novara (Galleria Giannoni), dall’atmosfera più silenziosa e composta.
La propensione a conferire un’aura di solennità alle figure, riscontrabile nelle opere d’arte sacra, si ritrova anche nei soggetti profani affrontati nello stesso periodo, soprattutto nelle scene di maternità per le quali posò la seconda moglie. Scrisse molti anni dopo Gaudenzi: “Quando s’iniziò nella mia pittura una evoluzione verso la religiosità, mi si impose non il semplice studio dei fatti relativi alla vita dei Santi e al massimo dramma cristiano, ma la necessità d’una fede e d’una pratica sempre più aderenti allo spirito cristiano e cattolico. I fatti sono la storia, lo spirito è l’eterno. Mi abituai a vedere e sentire, comprendere e amare, credere e adorare. E fu tanto penetrata dal mio sentimento la verità religiosa, che giunsi a ritrovare sacro l’atto dell’uomo offerto alla purezza, alla bontà, a Dio”.

“Pietro Gaudenzi è a Milano adorato”
“Pietro Gaudenzi è a Milano adorato […] fanno a gara i maggiori milanesi, dai Podestà ai Cardinali Arcivescovi, dai principi della musica ai re della finanza, a rapirselo, quantunque, da buon ligure, il Gaudenzi sia un po’ orso, e però nel tempo stesso magnifico e cortese”. Così scriveva il critico Francesco Maria Zandrino.

L’artista si era trasferito a Milano attorno al 1920 su invito di Guido Rossi, che aveva voluto conoscerlo dopo aver ammirato dal vivo la sua Deposizione, vincitrice del prestigioso Premio Principe Umberto, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Da allora divenne uno dei suoi più importanti committenti. Molte opere provenienti dalla sua collezione, qui eccezionalmente esposte, confluirono dopo la sua morte nella raccolta del Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci. Oltre a nature morte e scene sacre, per la famiglia Rossi il pittore genovese realizzò alcuni dei suoi più riusciti ritratti. In queste opere, pur mantenendo un saldo legame con la ritrattistica ottocentesca, Gaudenzi sembra aprire la strada a un linguaggio più moderno, come si vede nel Ritratto della signora Luisa Scandroglio Rossi, madre del mecenate, che eseguì nel 1927. Il rigore geometrico, il realismo quasi lenticolare e la severità della composizione rivelano evidenti tangenze con i pittori del Realismo Magico.

La tecnica di Gaudenzi

Le importanti committenze pubbliche e private non impedirono a Gaudenzi di continuare a realizzare dipinti di carattere più intimo, di piccole o medie dimensioni, nei quali si può riconoscere la manifestazione più autentica della sua creatività. Concedendosi la libertà di dipingere per il puro piacere di fare pittura, nella fase matura della sua vita reinterpretò talvolta soggetti già affrontati in precedenza. Le sperimentazioni del pittore sul tema della figura seguono di pari passo quelle sulla natura morta, genere che gli permette di esprimere appieno la sua libertà creativa, con cromie variopinte, una stesura del colore a impasto e un gesto pittorico audace e disinvolto. Un tocco rapido e ispirato di matrice impressionista si ritrova anche in alcuni ritratti per l’alta società. La volontà del Gaudenzi maturo di recuperare una pittura priva di contenuti edificanti, dalla bellezza rassicurante, emerse con chiarezza alla Biennale di Venezia del 1942, dove espose ben ventidue quadri. Compiendo una decisa inversione di rotta, il pittore genovese riprendeva certe soluzioni ottocentesche da lui già sperimentate in giovinezza, avendo bene a mente Antonio Mancini: nella tecnica, contraddistinta da una pittura materica ed esuberante, come nelle soluzioni compositive e in alcune scelte iconografiche.

Il Castello dei Cavalieri a Rodi

Il rinnovamento formale nella pittura di Gaudenzi, al quale contribuì il confronto con le nuove ricerche della figurazione italiana a lui contemporanea, si espresse appieno negli affreschi del Castello dei Cavalieri a Rodi, realizzati nell’estate del 1938 con la collaborazione del figlio Enrico, del cognato Mario Toppi e del pittore Benedetto Tozzi. Questi dipinti rappresentavano un punto di arrivo nella carriera dell’artista. Tuttavia, a causa del precoce deterioramento dovuto ad alcuni errori commessi dal pittore nella scelta dei materiali impiegati per l’affresco, essi sono andati completamente perduti. I cartoni preparatori qui esposti costituiscono quindi l’ultima, preziosa testimonianza delle pitture murali che occupavano due ambienti del Castello – la Sala del Pane e la Sala della Famiglia – che fu sede del Governatorato italiano del Dodecaneso dal 1912 al 1943. In piena consonanza con il revival della pittura murale a cui si stava assistendo negli anni Trenta, Gaudenzi conferisce a queste figure una severa monumentalità, mettendole in relazione a un’architettura spoglia e semplice, senza indugiare in dettagli aneddotici. Anche dopo l’esperienza rodense, l’artista tornò più volte a misurarsi con la tecnica dell’affresco. Le potenzialità espressive di tale linguaggio ben si addicevano, infatti, a quella solennità da lui ricercata anche nei dipinti da cavalletto.

Carlo Franza

 

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