Presso lo Spazio Hajeck del Liceo Artistico Statale di Brera a Milano è in corso una mostra di valore e storica soprattutto per i temi e il movimentismo dell’arte, di taluni gruppi e di taluni artisti che si sono dagli anni Cinquanta in poi caratterizzati sul tema dello “spazio”. Si misura sul tema degli “Spazi, confini e territori.Luoghi, movimenti e tendenze dell’arte contemporanea”. Opere di dieci artisti contemporanei, taluni viventi, altri scomparsi, che aprono una riflessione sulle estetiche di “spazi, confini e territori”, sul lavoro intorno alla forma chiusa che per scelta si mette in relazione con la dinamicità del reale, con chiari rimandi al cosmo, al magma delle origini, ai segni di un passaggio verso ciò che è indeterminato. Nomi storici come Agostino Bonalumi e Arturo Vermi per citarne qualcuno, e altri che nelle le loro opere trovano il coinvolgimento dello spazio reale che diventa così tema centrale grazie alla fisicità, alle dislocazioni interne ed esterne, alle estroflessioni e soprattutto alla ricerca di infinito. Luoghi ancora oggi dominanti e caratterizzanti, nel quadro ancor più ampio di nuovi territori instabili, capaci di ampliare quei termini mutanti che dagli anni Cinquanta in poi hanno segnato culturalmente l’arte contemporanea, vale a dire dallo “spazialismo “ di Lucio Fontana al linguaggio di “segni e forme” di Arturo Vermi, dal cinetismo di luce e movimento di Tornquist all’ informale magico e spirituale di Hsiao Chin, dal “rigorismo” spazialista ed estroflesso di Agostino Bonalumi, Pino Manos e Giuseppe Amadio, fino alla movimentazione di “luoghi/territori” fra terra e cielo e l’ambiente primordiale di Armando Marrocco, ma anche il “costruttivismo/destruttivismo Madì” di Gino Luggi, Vincenzo Mascia e Piergiorgio Zangara. Verticale e orizzontale, dentro e fuori, estroflessioni e impunture, concavità e convessità, buio e luce, costruttivismo e destruttivismo, sono dimensioni che danno all’uomo la tensione dell’infinito, il superamento del perimetro, la gioia della scoperta. E’ nel 1949 che Lucio Fontana allestisce il suo primo ambiente(Ambiente spaziale con forme spaziali ed illuminazione a luce nera) presso la Galleria del Naviglio a Milano. Ma non c’è solo questo, perchè “la caverna dell’antimateria”( un ambiente ricoperto di pittura segnica-materica) di Pinot Gallizio presente nel 1957 alla fondazione dell’Internazionale Situazionista con Guy Debord teorico, nonostante fosse eredità di una poetica informale è pur sempre un esperimento di arte ambientale. E’ dallo spazialismo che vivono le forme dell’ovale, dell’ellisse, e sempre da quel mondo di Fontana dilaga lo spaziare in simbologie primordiali, le “nature” che Fontana chiama familiarmente “palloni” e in realtà sono opere che tendono ad ambientarsi come presenze vive. Un’opera di Arturo Vermi del ’63, oggi qui in mostra,dà in Italia la sveglia a quanti stanno guardando alla Scuola di New York impegnata da qualche tempo all’esperienza detta “Color Field”(campo colorato); ecco opere con campiture uniformi piatte e liquide,stesure monocrome rotte da poche linee o bande verticali. Dallo spazialismo trae lezione Agostino Bonalumi, in quanto la tela non è solo una superficie da riempire, ma si afferma come contenitore di spazio, un diaframma da sfondare perchè questo spazio si liberi, dando così origine alle sue estroflessioni. Gli infiniti, gli universi, gli spazi di Hsiao Chin aprono a una sistema di controllo mistico, di avventure nei meandri dell’inconscio alla ricerca dell’essenza dell’uomo e della natura. Anche per Hsiao c’è l’esplorazione dei campi colorati con forme che segnano e diventano cerniere tra cielo e terra. Il gruppo di Giuseppe Amadio, Pino Manos e Armando Marrocco che pure fanno parte del movimento de i cosiddetti “rigoristi” come li chiama Massimo Donà, preferisco chiamarli con un termine proprio che più li apparenta e cioè “neospazialisti”. Con rigore, unitamente a perfezione e imperfezione, tracciati e sagomati, limite e illimitatezza, gli spazi ritagliati da Giuseppe Amadio restituiscono una potenza energetica incredibile grazie a un progettare e prevedere, a un “costruire” ritenuto sempre “possibile”, da quel segno impresso che movimenta lo spazio tra concavi e convessi, con un’istanza di libertà geniale, che porta a far vibrare il movimento originario in una grammatica che esperisce com’è il mondo, lo spazio circoscritto o infinito, la geografia dello spazio, di uno spazio placcatico svelato da un perpetual inventory, declinando una sorta di cartografia dinamica, capace di non sottrarsi a sommovimenti, a dune di colore e impunturate che svelano l’estroflessione del telero, estroflessioni monocrome che raccontano un universo che si accende di toni, di materia pulsante, di dilatazioni , svelandoci persino oltre l’ossatura anche una sorta di respiro sincopato. Per le opere e l’intellettualità di Armando Marrocco, che s’apparenta al gruppo dei rigoristi, mi vien da ricordare quanto disse Lucio Fontana nel 1947 e cioè che “l’arte rimarrà eterna come gesto, ma morrà come materia”. Ciò vale per Marrocco maggiormente in quanto egli ha cercato sempre di vivere l’ambiente, declinando ad esempio schegge di marmo su pareti, eppoi coniugando il binomio arte-vita, prelevando oggetti e forme del quotidiano che ha rielaborato con svariati interventi pittorici. Marrocco ha utilizzato lo spazio con opere site specific, opere aperte, in simbiosi con l’ambiente, opere pure, integrando elementi artificiali propri dell’uomo con quelli naturali. Creazione e regola, dimensioni simboliche, potenza ed eternità, transitorietà e precarietà, essenza e significato, territori instabili, tutto ciò è diventato elemento fondante del linguaggio di Marrocco. Pino Manos ricontestualizza le forme, declina gli spazi, apre in termini minimalisti la qualità della materia e del colore,facendo si che la natura delle sue opere è affidata tutta a una tensione interna che costruisce e scarta, e si porta verso un nuovo spazio che allarga i confini, sicchè ogni opera diventa un termine discontinuo di una serie infinita; un lavoro che sistematizza, sovverte, assimila, generalizza, intreccia idee, estende all’infinito i campi di questo infinito gioco di significazione,e si manifesta senza limiti, in modo trasformativo, rigoroso, puro. Infine, nel villaggio globale dell’arte, partendo da istanze costruttiviste, e violando i confini delle forme, di quei territori geometrici che hanno interessato significativi movimenti novecenteschi, ecco il Madì, cui appartengono Gino Luggi, Vincenzo Mascia e Piergiorgo Zangara , che fa vivere l’opera non più con un centro ma la apre a periferie, tanto da suggerire la possibilità di continuazione oltre i bordi stessi. Un modo di operare senza campi, oltre i confini dell’ opera, e ogni particella o forma è in continua tensione interna, giacchè si spinge oltre, alla ricerca di nuove e imprevedibili superfici. Forme e colori, sagomate, costruite, concrete, astratte, giocano intellettualmente sotto le mani degli artisti artefici, e porgono interrogativi aperti. Mostra fortunata e nuova, didattica e storica, capace di testimoniare presente e futuro. E ciò non è poco.

 Carlo Franza

 

Tag: , , , , , , , , , , , , , ,