Varlin celebrato con una mostra a Gualtieri. Un grande della pittura espressionista ed esistenziale, autentico cantore dell’umanità perdente.
Dopo il successo dell’antologica dedicata ad Antonio Ligabue in Palazzo Bentivoglio a Gualtieri (RE), che ha fatto registrare dati particolarmente significativi (oltre 37.000 visitatori e 2.500 cataloghi venduti), la sede espositiva ospita, fino al 10 luglio 2016, una mostra dedicata a Varlin, pseudonimo di Willy Leopold Guggenheim (Zurigo, 1900 – Bondo, 1977), uno fra i protagonisti più autentici della pittura del Novecento. Curata da Sandro Parmiggiani, la rassegna, realizzata in collaborazione con l’Archivio Varlin di Bondo (Svizzera), è la seconda iniziativa organizzata dal Comune di Gualtieri e dalla Fondazione Museo Antonio Ligabue. Il Salone dei Giganti dell’imponente edificio cinquecentesco di Gualtieri, sito in una delle piazze più suggestive d’Italia, accoglie 39 opere di Varlin – 33 dipinti e 6 disegni e tecniche miste su carta, provenienti da collezioni private svizzere e italiane. Pochi autori sono stati in grado di unire, nelle loro opere, l’arte e la vita. Com’ebbe modo di ricordare lo stesso Varlin, “nella mia pittura cerco sempre l’umano”. È l’umanità dei perdenti, dei miserabili, dei semplici, dei vagabondi, quella che Varlin ritrae, sempre con ironia e con profonda pietà, attraverso un uso particolare del colore, steso su supporti (tele o tavole di legno) di cui talvolta lascia libere zone della superficie che diventano esse stesse fatto pittorico, e grazie a una gestualità rapida e nervosa, tutte caratteristiche che lo accomunano a un’ascendenza espressionista, in particolare nella pratica ritrattistica, che a Gualtieri si potrà cogliere in capolavori come “Heini Gantembein” (1953), “Livia” (1955), il “Ritratto di Hans Theler” (1963), il “Ritratto del prof. Corbetta” (1973), “Leni” (1973), nel “Ritratto di Giovanni Testori” (1971-72) e nell’“Ecce homo (autoritratto)” (1967). È stato proprio Giovanni Testori a comprendere la grandezza dell’artista, di cui curò la mostra allestita alla Rotonda della Besana a Milano nel 1976; Testori frequentò assiduamente Varlin negli ultimi dieci anni di vita dell’artista e lavorò a un progetto espositivo, purtroppo mai realizzato, che prevedeva di presentare una triade di grandi protagonisti della pittura europea: Alberto Giacometti, Francis Bacon e Varlin.
“Nessuno, nel nostro secolo – ricordava Testori -, è riuscito come Varlin a esprimere il cuore, il sangue, le ossa, le palpebre, le artriti e i calli della vita (anche sociale, sia ben chiaro); nessuno come lui, è stato dalla parti di chi non ha potere alcuno, dalla parte del barbone assoluto, legatissimo e insieme liberissimo clochard”. Nei suoi lavori, gli ambienti e gli spazi sono caratterizzati da uno spazio che Varlin deforma per le sue necessità espressive e psicologiche, e che lo porta a creare delle prospettive malinconiche e vuote, come già si vede nello stupendo dipinto “La cattedrale di Friburgo” (1940), colta in una luce che tutto avvolge e impregna, e in opere successive, presenti in mostra, quali “Corridoio a Bondo” e “Piazza Zott a Bondo” (entrambe del 1964), “Montepulciano” (1965-1966), “Atrio della stazione di Montreux” (1966-1968).
Accompagna l’esposizione un catalogo Skira, con la riproduzione delle opere in mostra e testi del curatore, Sandro Parmiggiani, di Stefano Crespi, di Luciano Manicardi, monaco di Bose, e di Alain Toubas, oltre a contributi di Giovanni Testori, Roberto Tassi (di cui vengono pubblicati quattro interventi su Varlin, anche per ricordare il ventesimo anniversario della morte del critico parmigiano), Vittorio Sgarbi, Friederich Dürrenmatt, Mario Botta. La rassegna si avvale della collaborazione della Fondazione Matasci per l’arte di Tenero (Svizzera) e della Compagnia del Disegno di Milano, che da anni promuovono l’opera dell’artista. Ora ritrovare la mostra di Varlin in atto qui nel nord Italia, è stato come ritrovare non solo un amico artista che ha avuto modo di incontrare più volte ma anche l’amico che lo sostenne storicamente, ossia Giovanni Testori, intellettuale raro per fede, cultura e testimonianza. Non è poco, e dopo la visita alla mostra vedrete le naturali saldature su scelte, principi, vita e prospettive; altri tempi, certo, ma soprattutto altre dimensioni, altre visioni storiche ed estetiche.
Contemporaneamente all’apertura della mostra di Varlin, Palazzo Bentivoglio diventa la sede permanente del Museo Antonio Ligabue, con un primo nucleo di circa 50 opere (che potranno essere visitate fino al 13 novembre 2016), per consolidare l’immagine di Gualtieri come luogo privilegiato per la conoscenza dell’opera dell’artista.
Varlin, pseudonimo di Willy Leopold Guggenheim, nasce il 16 marzo 1900 a Zurigo, gemello di Erna. La sua famiglia appartiene all’alta borghesia ebraica e nel 1912, dopo la morte del padre, si stabilisce a San Gallo. Nel 1923 Varlin si reca a Parigi, dove frequenta l’Académie Julian e inizia a dipingere intensamente; nel 1930 incontra Leopold Zborowski, mercante d’arte e scopritore di Modigliani e di Soutine, che stipula un contratto con lui e gli consiglia di adottare lo pseudonimo di Varlin (un eroe della Comune di Parigi, che aveva rovesciato la colonna Vendôme assieme a Courbet), dato che il nome Guggenheim evoca la celebre famiglia americana di magnati. Zborowski muore nel 1932 e nello stesso anno Varlin, quando già cominciano a scendere le cupe ombre del nazismo, fa ritorno a Zurigo, dove vive con sua madre e sua sorella, in condizioni di vita modeste, giacché la famiglia più non dispone del proprio patrimonio e il lavoro dell’artista permette a malapena di mantenere tutti, almeno fino agli anni Cinquanta, quando l’opera di Varlin comincia a riscuotere un certo successo. Intanto, nel 1951 il Kunstmuseum di Lucerna espone le sue opere insieme a quelle di Max Gubler; incontra nello stesso anno Franca Giovanoli, che diventerà sua moglie dodici anni dopo, nel 1963, andando a vivere a Bondo, in Val Bregaglia. Grazie al medico di Chiavenna Serafino Corbetta, entra in contatto con Giovanni Testori, che ha un approccio innovativo con l’opera di Varlin rispetto a come era stata tradizionalmente recepita in Svizzera: se fino ad allora la critica si era soffermata essenzialmente sulle tematiche della bohème, vedendo nei suoi lavori soprattutto il lato ironico, Testori va ben oltre, cogliendone invece il significato tragico, legato alla rappresentazione della solitudine nella quale si svolge l’umana esistenza. Dopo l’esposizione, nel 1976, alla Rotonda di via Besana a Milano, Varlin, da tempo malato, muore nella sua casa di Bondo il 20 ottobre 1977.
Carlo Franza