La poesia di Menotti Lerro fra recupero d’infanzia e vita d’esilio.
Ecco un poeta con il vero senso della poesia, del fare poesia. Non è facile incontrarne uno della statura di Menotti Lerro in quest’Italia di santi, poeti e navigatori. E “Pane e zucchero”(Giulio Landolfi editore, 2016), l’ultima raccolta di poesie di Menotti Lerro (classe 1980) che vive e fa vivere al lettore il tema del recupero dell’infanzia( ecco la dedica:“Alla mia infanzia: sogno irripetibile che non vorrei ripetere”), inizia con una ispirazione di naturalismo cosmico e mitico( “ Reale l’atto che ci porta al mondo,/la grazia del parto,reale il truce corpo/ dei morti che lascia…”). Un mondo di ricordi d’infanzia a contatto con una natura vissuta e poi fatta memoria. Punti di riferimento, certo, possiamo trovarli in poeti come De Libero, l’Ungaretti di “Stagioni”, Sinisgalli, Albino Pierro e Rocco Scotellaro,per fare qualche nome. Una colorita autobiografia, nutrita di confidenze, di elegia, di flessioni e descrizioni, di sottili evocazioni sensibili nel procedere trasognato delle sue versificazioni. Giochi analogici e fantastici corrono tra i versi, sicchè quella felice stagione che è l’infanzia -qui urgente motivo-, rende ancor più liberi e increspati i versi, fulminei, intensi, sincopati, quasi da copla spagnola. La memoria fatta presente, nella nuova trasparenza dei sensi, si ricava in una ispirazione che pur classica è essenzialmente nuova.
Menotti Lerro rileva nel racconto poetico il suo vivere nei luoghi di origine, a Omignano nel salernitano, la transitorietà di quei giorni e anni, ne individua la fisionomia di quel piccolo mondo, una sorta di verginità della terra( “… Un albero è il canto nella fossa,/la rondine nel nido di una tela,/lo sciogliersi della terra nella pioggia. /…), la scoperta di un chiarore nell’orto con i fichi e le cicale, la piana di ulivi, la bottega del padre e perfino il paese con le feste e il circo( “La rotella. Caramelle nel bastone./Di mio padre il regalo, puntuale/ bagliore nel ricolmo grigiore della fiera.”), fino alle prime scoperte dei corpi che i giovani si osservano nel loro mutamento.
Tema e linguaggio si attraversano con il contrassegno diaristico delle cose e del mondo, e talvolta la poesia si colora di pittura, tra la cadenza classica dei versi e il delicato sapore barocco. Lerro trasloca dalla metafisica alla fisica e passa in toto al campo della poesia d’occasione, alle antiche sollecitazioni, a descrivere sgomento e smarrimento, turbata e timorosa ansietà, il destarsi nel poeta, visionariamente, di impressioni e suggestioni, il dato realistico(“…Ma poi prepari l’infuso, così come,/da piccolo lo zucchero col pane./…), ma anche contrappunto del cuore che ad alta voce scandisce il tempo e il grido.
Il puntuale descrittivismo riconvoca i luoghi, i gesti, le impressioni, i fatti, le ipotesi; il poeta risulta nello stesso tempo locutore e destinatario di un messaggio sollecitato dall’urgenza dello sfogo del cuore, al recupero di una stagione felice, al motivo di una morte dell’infanzia come esito estremo di un’autentica esistenza( “Quanta lontana sei mia fanciullezza,/brumosi specchi in viso senza quella luce./Il campanile strozza la voce che svuotava/ il giaciglio delle strade./Fieramente i bambini con le madri,/dal balcone screziati nastri,lacci sulle suole./…). E’ da lì che parte la sua vita d’esilio, da quella migrazione, dalle date, dai nomi e dai luoghi, da quell’età e da quell’orizzonte fisico interiormente perduti per sempre.
Carlo Franza