Antonio Dias e la natura dei segni. Una intera collezione con opere minimaliste da oggi in mostra alla Fondazione Marconi di Milano.
“I quadri di Dias sono volutamente spogli e rigorosi: spesso si presentano come sequenze o iterazioni di un discorso, in quanto ripetono gli stessi elementi grafici, con pochissime variazioni. Sono da afferrare come tracce di una progressione interiore aperta su varie situazioni collettive del momento storico che attraversiamo”; così scriveva il mio amico e collega Gualtiero Schönenberger a proposito di Antonio Dias.
Questo luminare dell’arte mondiale lo troviamo attivo a Milano già negli anni Sessanta. Oggi riconosciuto come uno dei principali artisti contemporanei del Brasile, Antonio Dias presentò la sua prima mostra allo Studio Marconi nel 1969, “Anywhere is my land”. A questa ne seguirono altre, nel 1971 e nel 1987 fino ad arrivare al 1995, anno a cui risale l’ultima esposizione dell’artista brasiliano da Giorgio Marconi in cui vennero presentate le opere oggetto dell’attuale mostra. Nato nel Nord est del Brasile, Dias, di indole ironica e brillante, talvolta pungente e provocatoria, partecipò a diversi gruppi d’avanguardia prima di raggiungere l’Europa. In aperto contrasto con la dittatura militare stabilitasi nel suo paese, si trasferì dapprima in Francia dove rimase fino al 1968, grazie al Premio di Pittura della Biennale di Parigi del 1965, per poi eleggere Milano a sua città d’adozione. In questi anni entrò in contatto con la scena artistica internazionale e, in particolare nel capoluogo lombardo, con la cerchia di artisti che gravitavano intorno al movimento dell’arte povera, tra cui figurano Luciano Fabro, Giulio Paolini, Gilberto Zorio. La sua sarà sempre un’arte di rottura che affronterà temi diversi e lo porterà a realizzare opere concettuali sostanzialmente impossibili da etichettare, con una grande varietà di tecniche, subendo l’influenza di diversi movimenti artistici, tra cui la pop art e il minimalismo. Il nucleo di opere della collezione Marconi presentate in questa mostra copre un arco temporale che va dal 1968 al 1972 e offre uno spaccato molto coerente e preciso sulla ricerca artistica del giovane Dias, la cui cifra stilistica è quella di utilizzare un codice pittorico-grafico estremamente ridotto e di indagare sulla natura dei segni, delle categorie dell’immaginazione e sull’andamento difforme e discontinuo delle dinamiche percettive dell’opera, da parte tanto del suo esecutore quanto dei suoi fruitori finali. Le opere in mostra sono caratterizzate da una pittura grafica, geometrica, in bianco e nero, intesa a ridurre al minimo gli elementi.Dias elabora un nuovo linguaggio concettuale di non facile comprensione, in parte compensato dall’immediatezza di comunicazione delle parole, qui usate secondo il procedimento di Magritte: “in un quadro, le parole sono della stessa sostanza delle immagini.” In realtà, la parola non ha alcun valore denotativo dell’immagine, al contrario si disperde, dissolvendo i significati. Anche i titoli attribuiti alle opere sono considerati al pari di particelle, nessuna rappresenta se stessa. E se in un primo tempo lo spettatore è indotto a credere in un intimo specifico significato, presto si accorge che l’insieme delle parole portano invece a una sorprendente rivelazione: sono tutte false. Come nei giochi linguistici del filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein, dove le parole non funzionano come rigide etichette che denotano degli oggetti, poiché questa è solo una delle tante funzioni del linguaggio, uno degli infiniti giochi linguistici possibili, all’artista non interessa l’origine semantica dei quadri e non esiste un unico testo per la verità visiva. Pittura e parole distribuite sulla tela sono non-immagini, particelle prive di forma. Let it absorb, Chinese Monument, Environment for the prisoner, The incomplete biography, Do it yourself, desert (stone) sono solo alcuni dei titoli delle opere in mostra, espressioni tra l’enigmatico e l’insignificante, un ready-made tratto dal gergo pubblicitario o da slogan politici, in cui l’associazione parole-immagini è sconnessa e sconcertante. Eppure esiste un filo conduttore al discorso poetico di Dias, un possibile valore aggiunto in grado di orientare il nostro sguardo. In particolare nella serie The tripper (il viaggiante) è lo stesso artista a spiegarlo, dicendo che l’idea di queste opere risale al 1968, quando ha l’intuizione di sfruttare un’idea preconcetta del pubblico riguardante la sua pittura. Ha infatti notato che ogni qual volta presenta quadri su fondo nero con dei puntini bianchi, l’unica immagine che i visitatori vedono è quella di un cielo stellato. Colpito dal bisogno che ognuno di noi ha di vedere immagini diverse da quelle proposte, Dias decide dunque di studiare la dinamica mentale che fa scattare in chi guarda il meccanismo delle analogie visive. Ecco allora che, dopo aver dipinto con la vernice bianca un’infinità di puntini su fondo nero, si mette a tracciare un itinerario, collegando alcuni di essi con una riga bianca. È una sorta di viaggio il suo, al quale qualcun altro darà tutt’altra connotazione e da un’immagine unica ottiene un’immagine variabile, un campo aperto a molteplici interpretazioni e significati. E’ lo stesso Antonio Dias nel 1995 a dire che “…far scattare nello spettatore il meccanismo delle analogie visive, delle proiezioni interiori, oppure il suo raziocinio analitico: questo il movimento continuo, mentale, che mi interessa. Qui non conta il perché della mia scelta, il viaggiante non sono io.”
Antonio Dias nasce nel 1944 a Campina Grande nel Nord est del Brasile. Si trasferisce a Rio de Janeiro e inizia a lavorare come grafico e illustratore mentre segue le lezioni di Oswaldo Goeldi alla Scuola Nazionale di Belle Arti. Nel 1964 tiene una personale alla Galeria Relevo di Rio de Janeiro con presentazione di Pierre Restany, e inizia a esporre anche in Francia grazie al Premio della Biennale di Parigi del 1965, soggiorna a Parigi e alla fine del 1968 si stabilisce a Milano, dove inizia la sua collaborazione con lo Studio Marconi. Nel 1971 è l’unico artista sudamericano invitato alla sesta rassegna internazionale del Guggenheim Museum di New York, e trascorre l’anno seguente negli Stati Uniti con una borsa di studi della Guggenheim Foundation. Attento indagatore della funzione dell’arte come sistema linguistico e comunicativo e dei suoi rapporti con l’industria culturale globale, sperimenta diversi strumenti espressivi (pittura, video, fotografia, installazioni e libri d’artista) attuando anche una ricerca sulla sonorità, da cui nasce Record: The Space Between. Nel 1977 compie un viaggio in India e in Nepal, un’esperienza da cui nascono le opere su carta fatta a mano con colori di origine naturale. Tra il 1978 e il 1981 è di nuovo in Brasile, presso la Universidade Federal da Paraíba dove fonda il Nucleo de Arte Contemporanea, un organismo finalizzato alla promozione delle ricerche più attuali. Nei primi anni Ottanta riprende la sua attivitá nell’atelier di Milano. Nel 1984 Helmut Friedel cura una grande retrospettiva alla Städtische Galerie im Lenbachhaus di Monaco e Kynaston McShine lo invita a un’ampia rassegna internazionale al Museum of Modern Art di New York. Nel 1988 espone alla Deutsche Akademische Ausstauschdienst DAAD, si trasferisce poi a Colonia dove rimarrrà per vent’anni. I musei Mathildenhöhe, Darmstadt, e la Fundação Gulbenkian, Lisbona presentano grandi mostre con opere a partire dal ’68. Prosegue intanto la sua collaborazione con Giorgio Marconi, che ospita una sua personale nel 1995; nel 1998 partecipa alla Biennale di São Paulo e negli anni seguenti prosegue la sua intensa attività espositiva presso gallerie e musei internazionali, tra cui figurano: Walker Art Center, Minneapolis; Museo de Arte Contemporanea, Niterói; Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía, Madrid; Museu de Arte Moderna, Saõ Paulo; Museu de Arte Moderna, Rio de Janeiro; Los Angeles County Museum of Art. Tra le più recenti esposizioni segnaliamo: Anywhere Is My Land, Daros Collections, Zurigo (2009) e Pinacoteca do Estado de São Paulo (2010); The World Goes Pop, Tate Modern, Londra; Transmissions: Art in Eastern Europe and Latin America 1960-1980, Museum of Modern Art, New York (2015-2016); International Pop, Philadelphia Museum of Art (2016).
Carlo Franza