Il Professor Stefano Pizzi, Ordinario di Pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, in questa intervista racconta la sua arte, i riflessi internazionali e la storia di Brera.
1 Illustre professore, la tua storia artistica si intreccia con le vicende, le figure e i movimenti artistici più interessanti che l’arte ci ha presentato tra anni Sessanta, Settanta e Ottanta. Puoi darci uno schema storico e geografico dell’epoca?
R- Inizialmente fu la mia storia privata a condurmi sui sentieri dell’arte: nella seconda metà degli anni Cinquanta, infatti, il sabato pomeriggio in attesa di mia madre che lavorava in via Verdi, stazionavo con una sua amica o con mia zia in Brera, le soluzioni erano due: il Jamaica o il Bar Titta che era dalla parte opposta del marciapiede e che oggi si chiama Bar Brera. Avevo allora meno di sei anni, quindi i miei primi contatti con l’ambiente artistico furono alquanto precoci. Questa premessa per sottolineare quanto furono importanti quei luoghi, anche quando successivamente frequentai il Liceo Artistico e l’Accademia, sia relativamente alla mia formazione culturale che allo sviluppo del mio linguaggio artistico. Sono cresciuto avendo la fortuna di condividere momenti di convivialità a fianco di anziani maestri e docenti quali De Grada, (Corrente) Minguzzi, Pepe, Purificato e protagonisti indiscussi del mondo dell’arte come Baj, Dangelo, (esponenti dei Nucleari) Dova, (Spazialista) La Pietra, Sordini, Vermi (del gruppo del Cenobio)… rispettivamente al clima di impegno sociale che ha caratterizzato gli anni Settanta fui vicino particolarmente a Boriani, (Gruppo T) Sanesi, (Poesia Visiva) Ceretti (Realista Esistenziale), Cavaliere, Staccioli, Esposito che erano miei professori e poi Baratella, De Filippi, Spadari, (La Nuova Figurazione dell’Impegno) Franceschini, Moncada e Mondino con i quali iniziai a condividere i soggiorni ad Albisola ed il lavoro nei laboratori di ceramica. Nel corso degli anni Ottanta invece, dopo un esordio pubblico a Palazzo Dugnani con alcuni compagni d’Accademia tra cui Galbusera, Jannelli, Miano e Di Gennaro, inizio a collaborare con alcune importanti gallerie dell’epoca come Schubert, l’Artra, Paludetto, ecc. e frequentare altri artisti quali Grillo, Arcangelo, Ragalzi, Ferdi Giardini, Coletta, e i colleghi di Accademia Benati, Bressan, Panno, ecc. Galleristi come Cannaviello, Toselli, Composti, Cancelliere, Pedrazzini, il dealer Paolo Catani e l’amico editore Giampaolo Prearo con il quale ancor oggi collaboro. Bisogna naturalmente sottolineare che queste figure appartengono a un altro mondo dell’arte legato sostanzialmente alla ricerca, al pensiero ed alla passione che nulla ha a che vedere con l’attuale sistema finanziario che connota gli scambi del mercato internazionale contemporaneo.
2 La Vicedirezione dell’Accademia di Belle Arti di Brera, istituzione dove sei stato allievo e oggi professore, e la docenza per decenni, ti hanno accompagnato nel tuo lavoro artistico. Cosa vuoi dirci in proposito?
R- Come altri e già citati artisti ho sempre pensato, compiendo quindi una scelta di vita in linea con una specifica tradizione braidense, che ricerca e docenza debbano percorrere un itinerario univoco in quanto il passaggio dei saperi costituisce l’humus della formazione in ogni ambito. Inoltre, l’esperienza acquisita nell’ambito dell’impegno sociale, politico e associazionistico mi ha permesso, come mi permette tutt’ora, di ricoprire ruoli di particolare responsabilità e rappresentanza nell’ambito accademico.
3 Hai dato a molti studenti opportunità e insegnamenti significativi.E unitamente a taluni docenti storici sei diventato per loro un riferimento di spessore, ma lo sei stato anche per il nome di Brera, per l’Accademia stessa e il quadro direzionale, e dunque per la sua storia passata e presente.
R- Sono entrato a Brera mezzo secolo fa, ormai sono più che un decano o un emerito: costituisco una parte dell’arredo! Ho passato più tempo tra le mura dell’Accademia che in ogni altro luogo…è la mia casa, la mia famiglia…alcuni docenti cinquantenni sono stati miei allievi e sono diventati importanti artisti. Questo vale più di qualsiasi riconoscimento ufficiale. Poi, grazie alla mia storia anche i contesti civico, territoriale e nazionale trovano in me un interlocutore affidabile e quello internazionale un buon ambasciatore. Ritengo pertanto di aver svolto e svolgere il mio dovere con serietà e dedizione allineandomi, pur senza raggiungere i loro esiti, ai grandi maestri e professori che mi hanno preceduto.
4 La tua pittura, il tuo stile, la tua storia artistica hanno osmoticamente legato tradizione, mito, folclore e arte popolare, innestando il tuo lavoro su tracciati internazionali, specie dell’arte americana; divenendo oggi quasi aristocratica e unica nel panorama nazionale e della visualità. Cosa te ne pare?
R- Penso che l’iter espressivo di ogni vero artista, al di là dei periodi di ricerca nel corso dei quali l’immagine può modificarsi, mantiene comunque un filo conduttore di lettura che più che nell’icona si riconosce nel pensiero. Per questo io diffido sempre di quanti dichiarano che le opere parlano in loro vece: generalmente trattasi di amatori o artigiani, con tutto il rispetto per tali categorie. Se non disponi di un forte apparato teorico come puoi espletare, soprattutto oggigiorno, una qualsivoglia attività nel campo dell’espressione artistica? Come hai ben posto nella domanda ho sempre cercato di coniugare gli archetipi del fare artistico, e del relativo e incommensurabile bagaglio visivo, ai miei interessi precipui in ambito culturale con l’intento per l’appunto di innestarlo sulle tracce di esperienze internazionali forti, indiscutibili e proprio per questo uniche. Il fatto che questa mia acquisita posizione possa venire letta come unica e aristocratica non può che farmi piacere, d’altro canto è ormai molto tempo che la mia parte chic ha prevalso su quella radical a conferma di quanto il dandysmo sia sempre stato per me una linea di pensiero e comportamento.
5 Ritieni che la storia, il presente, il vivere politico contemporaneo possano ancora interessare all’arte e agli artisti? O questi sono condannati a un individualismo o ad essere in frontiera?
R- La storia e gli accadimenti della contemporaneità non possono che essere i riferimenti primari di un artista, qualsiasi disciplina espressiva egli espleti, rispetto al vivere politico contemporaneo invece, che soprattutto in ambito nazionale non offre certo un bello spettacolo, nutro forti dubbi e il mio interesse per la questione è pari a quello che la politica dimostra nei confronti delle arti visive: praticamente nulla! C’è da dire che gli artisti hanno una forte componente individualistica, spesso determinata da un non risolto rapporto con il proprio ego, ma senza tirare in ballo oscuri aspetti psicoanalitici si può tranquillamente affermare che la posizione di frontiera è decisamente superata. Coloro i quali ritengono che l’arte abbia e debba svolgere una funzione non solo estetica ma anche sociale sono in aperto e aspro conflitto su due precisi fronti: il primo è quello del totale disinteresse istituzionale non solo riferito alla ricerca ma anche alla formazione; il secondo è quello di un sistema dell’arte globale basato sull’investimento speculativo e non sulla passione.
6 La tua pittura ha viaggiato in questi decenni per capitoli o ha avuto sempre e solo una linearità figurale ed estetica?
R- Ho sempre lavorato per tematiche che approfondisco in un determinato periodo temporale e ripesco magari successivamente, fermo restando che la specificità del mio linguaggio viene espletata attraverso il dialogo dell’immagine dipinta con quella del supporto sul quale viene realizzata: antiche cornici, teloni da camion in pvc, oggetti trovati, tessuti e carte da tappezzeria, ecc. Questa dialettica tra soggetto e contesto, significato e significante, mi ha contraddistinto all’interno dell’attuale sistema dell’arte verso il quale ho via, via assunto una posizione critica se non antagonista.
7 Puoi indicarci il progetto più vivace e intellettuale, oltrechè artistico, che stai portando avanti con impegno e internazionalità?
R- Dalla fine degli anni Novanta, con le dovute pause e riflessioni ed alternandola con altre tematiche di ricerca, mi dedico alla ricognizione ed alla rappresentazione di figure appartenenti ai vari ceppi etnici che costituiscono, a causa dei flussi migratori, i nuovi cittadini milanesi. Questa opera di scandaglio non si pone alla pari della ormai pluribattuta quanto facile scia della denuncia, dell’indignazione e della constatazione delle difficoltà integratorie dei migranti ma, al contrario, vuole essere un elogio di coloro che pur affrontando incredibili difficoltà si sono conquistati un posto al sole nel nostro contesto sociale conservando e preservando i loro precetti culturali e le relative tradizioni d’origine. Mi auguro pertanto di riuscire a produrre, magari con l’amico Prearo, una degna pubblicazione accompagnata da un’esposizione in uno spazio pubblico.
Carlo Franza