Un grande poeta, un professore amato dagli studenti all’Università La  Sapienza di Roma, un ottuagenario innamorato della vita, un amante di Roma città eterna.    Era divenuto  un personaggio amato e popolare il poeta Giuseppe Ungaretti,  anche se  anziano, grazie alle sue apparizioni televisive negli anni ’60, quando commentava qualcosa o recitava i versi dell’Odissea a introduzione dello sceneggiato, o quando in diretta tv seguì  e commentò la discesa dell’uomo sulla Luna, con  quel modo un po’ nonnesco ma illuminante, sempre espressivo, forte e  intenso, e  soprattutto  con quegli occhi scintillanti e sorridenti. A 50 anni dalla sua scomparsa, a 82 anni, la notte del primo giugno 1970, esattamente mezzo secolo fa,  mi è caro ricordarne la figura  del grande poeta che ebbi in amicizia per la frequentazione romana tra il ’68 e il ’70. Con  quella sua barba bianca che coronava il suo volto che sprizzava  amore per la vita, come nel dolore per sofferenze e morte, Ungaretti era un “uomo”, e difatti tutte le sue opere furono raccolte nei Meridiani della  Mondadori con il bel titolo “Vita di un uomo”.

L’intera sua opera poetica si concentra in  quel suo “mi illumino / d’immenso’”, i due celebri versi di “Mattina” del 1917, scritti nelle trincee del Carso, assieme alle sofferte poesie sulla Grande guerra cui partecipò da soldato semplice, raccolte quell’anno in  “Il porto sepolto” e poi, nel 1919, in “Allegria di naufragi”, volumi diventati classici. Giuseppe Ungaretti, nato nel 1988 da genitori lucchesi a Alessandria d’Egitto, per cinquant’anni, a partire da quel titolo, “Il porto sepolto”, diventato mitico e considerato il seme dell’ermetismo, è stato, senza dubbio,  il più importante e significativo poeta italiano del Novecento con contatti internazionali, a cominciare dall’amico caro Guillaume Apollinaire sino a Jean Paulhan e Georges Braque. Si formò in guerra, sino al suo viaggio a Parigi nel 1912 dove alloggia  in un alberghetto del Quartiere latino a rue des Carmes 5 e,  attraverso le riviste Mercure de France e La voce, entrò in contatto con le vere novità culturali europee. Con  Enrico Pea  vive l’esperienza della Baracca Rossa, luogo d’incontro di socialisti e anarchici. Era amato per i suoi versi innovativi e profondi, dove la parola era  assoluta e intensa, pronta a scandagliare la profondità dell’essere teso  tra tempo e destino (un suo titolo “Il sentimento del tempo” ), legata a una totale fede nella parola poetica, unica possibilità per salvarsi dall “universale naufragio”, a versi scarnificati che sono un po’ il dissolvimento della lingua tradizionale della poesia, ma sempre cosciente che “lo sperimentalismo non può essere fine a se stesso”. Poi, pian piano l’aria cambia, la cultura e la poesia dal secondo dopoguerra diventano attente più a confrontarsi con la storia, il quotidiano e a tendere intimamente alla prosa. La definizione del “sentimento del tempo” (titolo della celebre raccolta del 1933) non può essere slegata dal contatto con Roma: le rovine, la memoria, il senso della perdita. “Una città come Roma – racconta Ungaretti -, negli anni durante i quali scrivevo il Sentimento, era città dove si aveva ancora il sentimento dell’ eterno (…). Quando si è in presenza del Colosseo, enorme tamburo con orbite senz’ occhi, si ha il sentimento del vuoto. A Roma si ha il sentimento del vuoto”.  E ancora,  questo si mescola a un’ aria di mito, che non avvolge soltanto la grande città ma l’ intero paesaggio laziale, “pieno di storia e con tali seduzioni della natura e tali lontananze nel tempo, da assumere come per prodigio aspetti di favola”.  Dopo la lunga e intensa unione con la moglie Jeanne, morta nel 1958, negli ultimi anni della sua vita ebbe una relazione con la brasiliana Bruna Bianco, più giovane di 52 anni e, agli amici che un po’ lo prendevano in giro, rispondeva sornione  “non capite perché siete privi di fantasia anche in quello”. Certo contò in parte anche il suo nazionalismo e  la sua ammirazione dal 1914 per Mussolini, che per le sue intemperanze e denuncia delle leggi razziali ebbe poi sempre un occhio di riguardo, come il essere stato lontano dal 1936 al 1942 per aver accettato la cattedra di letteratura italiana all’Università di San Paolo in Brasile, anche se gli servì poi, da Accademico d’Italia, per poter continuare ad insegnare all’Università La Sapienza di  Roma sino al 1958. “Il taccuino del vecchio” del 1960 è  stata la sua ultima raccolta. Mentre sono tante le edizioni complete della sua opera sino all’uscita, nel 1969, del Meridiano Mondadori, curato da Leone Piccioni, che ad oggi ha  di gran lunga superato la vendita delle centomila copie,  ben oltre il dato  degli Oscar. I suoi manoscritti, appunti, epistolari e documenti sono oggi raccolti nel fondo Giuseppe Ungaretti, conservato presso l’Archivio contemporaneo “Alessandro Bonsanti” del Gabinetto Vieusseux a Firenze. L’Eur a Roma lo ricorda Giuseppe Ungaretti, perché in questo quartiere  abitò. Una targa in sua memoria fu  inaugurata dal sindaco Francesco Rutelli, dall’assessore comunale alla cultura Gianni Borgna e dal presidente dell’Eur spa Raffaele Ranucci nel cortile di un palazzo in via Sierra Nevada, una traversa di viale Africa, dove il poeta visse fino a pochi giorni prima della sua morte e dove attualmente abita la figlia Anna Maria. “Con questa iniziativa – hanno sottolineato Rutelli e Ranucci – il Comune di Roma e l’Eur hanno voluto ricordare la figura di Ungaretti nel trentennale della sua morte, per mostrare il segno concreto del loro apprezzamento per la sua opera poetica e letteraria”.

Giuseppe Ungaretti giunse a Roma dal Brasile nel 1942 e alloggiò  in piazza Remuria 3, in una villetta presa in affitto da Tatiana, la figlia di Tolstoj. Il poeta attraversava un momento difficile della propria vita, avendo  perso da poco il giovane figlio Antonietto. La sua carriera professionale attraversava invece una fase felice, perché gli venne affidato l’insegnamento di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Roma, senza concorso e “per chiara fama”. Tra le case romane di Ungaretti, quella di piazza Remuria 3, è senza dubbio la più memorabile. Il contratto d’ affitto viene ceduto al poeta nel 1942 dalla figlia di Tolstoj e l’ appartamento diventa un ritrovo di studenti e giovani poeti, che seguono le sue eccentriche lezioni alla Sapienza. Durante i mesi dell’occupazione tedesca compone la raccolta di poesie dedicate alla Roma occupata. Il rapporto tra Giuseppe Ungaretti e Roma è stato dei più intensi, visto che Ungaretti lo frequentai nei due anni prima della morte. Voglio aggiungere per chi ha vissuto a Roma ( io vi sono stato fino al 1980)  che il legame con la città passa anche attraverso i mezzi pubblici, certe circolari.  Basti pensare alla fedeltà del poeta per la  Circolare rossa. Istituita nel 1931, è stata il tram cittadino fino al 1975: da ponte Risorgimento saliva verso l’ Aventino, scendeva, percorreva Viale Trastevere, passava per Porta Angelica, tornava al punto di partenza. Bene, anche il giovane critico Marco  Onofrio nel suo  bel testo “Ungaretti e Roma”(edizioni Edilazio, Premio Carver 2009) racconta  di  quella  schiera di ex studenti del professor Ungaretti, che (“per chiara fama” insegnò alla Sapienza), a fine lezione salivano con lui sulla Circolare,  seguitando certo  a discutere di Dante e Leopardi, ma fermandosi soltanto in caso di transito di belle ragazze. Leone Piccioni, che di Ungaretti ha curato l’ opera poetica, racconta che il professore, alla sua fermata, “tante volte per dimenticanza, tante volte perché preso dal discorso senza aver volontà di interromperlo, altre volte ancora per stare un altro po’ insieme (“Dove scendi? A San Pietro? Ti accompagno”), non scendeva, e si faceva, intero, un altro giro di Roma”. Ma è ancora l’Onofrio  a ricostruire di Ungaretti  indirizzi e traslochi; cerca materiali  e mette a fuoco il  rapporto poetico con la città dove Ungaretti va  a vivere nell’ inverno del 1922,  dettagli per lasciare scoprire la  naturalizzazione di Ungaretti a Roma,  romano per ragioni del cuore. Il vero, solenne ingresso nella capitale, a quasi trentacinque anni, coincide con quello di Montaigne: “lungo la Flaminia, dalla Porta del Popolo”. I primi passi sono dunque tra memorie letterarie; quelli fatti prima della guerra, nel ‘ 12, tra catacombe e monumenti, erano stati troppo incerti per via di “tante cose inconsuete”.  Nel giro di cinque anni, tra il ‘ 22 e il ‘ 27, cambia otto volte indirizzo: via in Selci 84, via Cappellini 3, via Carlo Alberto 8, piazza Poli 23, via Conte Rosso 10, via Amedeo Ottavo 11, via Piave 15, via Malta 16. All’ estate del 1927 risale il primo soggiorno a Marino, in un piccolo appartamento di un antico palazzo settecentesco. Sono gli anni dell’ Ungaretti mussoliniano: lettere deferenti al Duce (“Sono il vostro devotissimo milite”), vivaci amicizie con artisti e scrittori, perfino duelli (con Massimo Bontempelli), apparizioni da Aragno e al Caffè Greco. Roma lo sorprende, lo ammalia ma anche lo disorienta; all’inizio  la vive e la scopre da straniero. Sa che diventerà uno dei luoghi fondamentali della sua vita, ma “appena arrivato – scrive – mi è parsa una città alla quale non avrei mai potuto abituarmi. I suoi monumenti, la sua storia, tutto ciò che possedeva di grande (…) non aveva per me assolutamente nulla di famigliare”. Si ha l’ impressione che le “prove di avvicinamento” di Ungaretti alla Roma dei secoli,  passino sì per via letteraria e artistica, ma forse più ancora per una questione sensoriale, direi di pelle e di anima. Il poeta sente, si direbbe a pelle, la città, con tutta la dolcezza e la violenza, “la naturale violenza delle stagioni che vedevo sposare le ore”. Scriverà che “il travertino è a Roma polpa delle stagioni, le incarna, le veste, le nuda, e l’ autunno è la sua stagione più felice, quando s’ impregna d’ oro e d’ angoscia”. Ma una particolare sensazione la produce l’ estate, che di Roma fa risaltare il respiro e  l’ anima barocca. C’ è qualcosa di allucinato e furioso, nelle visioni estive, qualcosa di mortuario e insieme di sfarzoso: “ È l’ estate e nei secoli / Con i suoi occhi calcinanti / Va della terra spogliando lo scheletro”. Le  esperienze biografiche passate e recenti, pesano sul suo sguardo sulla città.  Il soggiorno a São Paulo (1937-1942), per esempio, creerà – sull’ immagine di Roma – strane sovrimpressioni brasiliane; come i tristissimi dolori privati,  vale a dire la morte del figlio Antonietto, nel ‘ 39; e poi  la guerra, tutto agirà nel suo animo e sulla   visione della città che si fa leggere  più cupa, a tratti spettrale. “Mio fiume anche tu, Tevere fatale, / ora che notte già turbata scorre”. Nel 1958, alla morte della moglie Jeanne, per non sentire la solitudine, Ungaretti lascia l’appartamento di piazza Remuria e si trasferisce presso la figlia, all’EUR, in via Sierra Nevada 1. Oggi è  sepolto al cimitero del Verano, accanto alla moglie. Non vi nascondo che annualmente lo vado a trovare e porto un fiore sulla sua tomba.

Carlo Franza

 

 

 

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