Intervista al Professor Antonio Cioffi dell’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano. Intellettuale aperto alle arti, all’educazione e alle nuove tecnologie.
Il professor Antonio Cioffi, titolare di cattedra di Pedagogia e didattica dell’arte presso la Storica Accademia di Belle Arti Brera di Milano, si occupa da tempo del rapporto che intercorre fra arte, educazione e nuove tecnologie. Su questi temi ha curato la partecipazione dell’Accademia a diversi progetti di ricerca finanziati dalla Commissione Europea, come V4T – Videogames for Teachers, conclusosi nel 2019 e che ha avuto lo scopo di fornire ai futuri insegnanti d’Europa uno spunto organico di riflessione pratica sull’innovazione dei metodi didattici attraverso l’uso dei videogiochi e delle applicazioni ludiche. Nel 2012 ha ideato a Brera un biennio sperimentale di 2° livello in Didattica multimediale, accreditato in via definitiva dal Ministero nel 2018. Si occupa attivamente di e-learning e di problematiche sociali relative all’intercultura; altri suoi ambiti di ricerca riguardano la sociologia dell’arte e dei nuovi media, l’arte sacra e l’iconografia delle tradizioni religiose e misteriche, l’influenza delle tradizioni esoteriche nella cultura di massa contemporanea. Alla luce di questa nutrita cultura e di questa spiccata professionalità che gli appartiene all’interno della più importante Accademia di Belle Arti del mondo, qual’è l’Accademia di Brera fondata da quell’illuminata imperatrice che è stata Maria Teresa d’Austria; ebbene, abbiamo pensato di rivolgere all’illustre collega una serie di domande, adatte a spiegare le innovazioni che si stanno manifestando in essa, il suo contributo di docente e il ruolo di questa istituzione in tutto ciò.
1 – Quale rapporto pensa che intercorra oggi fra l’arte e il mondo delle nuove tecnologie digitali?
R: Arte e tecnologia sono sempre state connesse, come dimostra la stessa etimologia del termine “tecnica”, derivante dal greco téchne, che significa propriamente “arte”. Oggi più che mai è necessario essere consapevoli di quanto le arti possano influire sul modo che abbiamo di percepire e di usare le tecnologie, in particolar modo quelle digitali. Non mi riferisco tanto alla possibilità di annoverare il digitale fra le tecniche espressive artistiche, quanto piuttosto alla funzione, da sempre rivestita dall’arte, di produrre sistemi di rappresentazione simbolici del mondo. Per questo, oggi più che mai occorre che essa riprenda il suo ruolo centrale nel processo di codifica simbolica della realtà, processo che viceversa si produrrebbe all’interno di dinamiche ideologiche o meramente mercantili, come quelle pubblicitarie. Si tratta a mio vedere di farsi carico – da parte degli artisti – del processo stesso di creazione dei linguaggi tecnologici. La grande arte del passato non era al traino della tecnica ma contribuiva a definirla, basti pensare, con Hubert Damisch, allo sviluppo rinascimentale del paradigma prospettico nelle arti visive. Il digitale lasciato a se stesso non può essere che una tecnica, solo attraverso la pòiesis dell’arte può diventare linguaggio e di conseguenza “mondo”; ed in parte questo già oggi avviene, nell’universo dei videogiochi, per esempio. Il diffondersi di queste tecnologie è per l’arte una grande opportunità: se saremo capaci di rivedere le categorie della produzione artistica alla luce di questa nuova alfabetizzazione – ripensando ad esempio il ruolo dell’autore, che necessariamente deve mutare ed accogliere la sfida della creazione collaborativa e decentrata – la funzione sociale dell’artifex può conoscere un nuovo Rinascimento.
2 – Ritiene quindi che il cambiamento di paradigma dovuto alla rivoluzione digitale procuri anche al mondo dell’arte le trasformazioni che stanno investendo tutti gli ambiti con i quali tale rivoluzione viene a contatto?
R: Proprio così, la tecnologia digitale ha caratteristiche intrinseche, una sorta di “anatomia macchinica” che – come sempre accade, ci ha insegnato McLuhan – va a plasmare attraverso il suo uso le attività ed i soggetti della loro applicazione, fino ad arrivare a modellare il pensiero stesso del proprio utente. La clonabilità – più che la riproducibilità di benjaminiana memoria – del dato informatico, il suo carattere discreto piuttosto che continuo, la natura rizomatica dei suoi sviluppi, la possibilità di un approccio plurale e collaborativo allo svolgimento delle sue operazioni, sono tutte caratteristiche “morfologiche” del digitale che già hanno fortemente influenzato la scienza contemporanea, pensiamo per esempio alla genetica. In ambito pedagogico-didattico hanno prodotto la nascita e lo sviluppo delle metodologie di e-learning, con i loro learning objects e l’ideazione di “ambienti di apprendimento” costruiti “intorno” – piuttosto che “davanti” – al discente. Anche la politica che diventa governance sembra essere nella cultura contemporanea un frutto di questo processo, così come l’attuale concezione di “democrazia diretta”. E non è un caso che tutto ciò sia stato in un certo modo prefigurato dalle teorizzazioni estetiche che hanno caratterizzato gran parte dell’arte del secondo Novecento.
3 – A Milano, all’Accademia di Brera, lei ha ideato un biennio specialistico in Didattica multimediale, come valuta quell’esperienza alla luce di queste considerazioni?
R: Il biennio in didattica multimediale ha voluto costituire nell’offerta formativa delle accademie un ponte fra la dimensione umanistica degli studi critico-filosofici e gli ambiti tecnologici deldigitale emergente. Non avevamo in vista né un corso di formazione professionale – seppur avanzato – di grafica o di pittura digitale od interattiva, né consideravamo le esperienze artistiche come la Net Art, che fanno uso delle potenzialità comunicazionali delle Social Community per esprimere proposte critiche più o meno concettuali. Considerando che l’ambito della formazione è per definizione il luogo di ricerca all’interno del quale gli “strumenti del comunicare” trovano la loro destinazione privilegiata e consapevoli del fatto che una nuova forma di alfabetizzazione – quella digitale – sta chiaramente entrando in competizione con quella analogica, volevamo sperimentare una strada che portasse alla formazione di autori multimediali che sapessero unire la preparazione teorica e la competenza tecnologica come richiesto oggi in molti ambiti, da quello editoriale a quello educativo passando attraverso l’industria del divertimento. Una figura di Digital Art Director, se vogliamo, che sapesse rispondere creativamente alle inedite domande del mercato del lavoro contemporaneo. D’altronde la stessa denominazione “didattica multimediale” esprime già in sé una complessità disciplinare della quale solo oggi – con l’emergenza sanitaria in atto – risulta evidente a chiunque l’importanza. Attualmente il biennio a Milano è sospeso, in vista di una sua riformulazione ancora più aderente alle necessità di un panorama culturale e professionale – diciamo così – “resettato”. La prospettiva è quella di una declinazione nelle arti visive degli studi che in altre scienze umane sono stati definiti delle Digital Humanities. Tra l’altro, a questo proposito, ho avuto l’onore di collaborare personalmente, come Visiting professor alla Brown University, con uno dei padri di questa disciplina, George Landow, colui che per primo ha messo a fuoco operativamente l’impatto formidabile dell’ipertestualità nella cultura. Egli, oltre ad essersi notoriamente occupato di letteratura inglese, è stato docente di Storia dell’arte; in ambito artistico tutto ciò trova infatti la sua collocazione ideale, poiché l’arte già in sé possiede la doppia connotazione, teorico-pratica, espressa dal complesso mano-cervello.
4 – Come sarà l’Accademia post-COVID? La digitalizzazione forzata cambierà in qualche modo il nostro modo di concepire l’arte e la didattica?
R: Il periodo di emergenza sanitaria che stiamo attraversando credo cambierà profondamente ogni ambito della nostra vita, tanto che c’è già chi parla di un mondo pre-Covid e di uno post-Covid. Anche l’ambito dell’arte e della corrispondente didattica ne risulterà quindi profondamente segnato, ma non necessariamente in modo negativo. Poiché l’accelerazione tecnologica che stiamo sperimentando riguarda fondamentalmente la comunicazione ed i sistemi di rappresentazione della realtà, e dato che questi sono proprio i fattori chiave dell’operato artistico, penso che se affrontata nel modo giusto la digitalizzazione forzata, che attualmente sta in parte producendouna sorta di tecno-fobia nelle generazioni più adulte, possa non solo essere superata brillantemente ma arricchire di nuove competenze e di inediti strumenti linguistici la sensibilità estetica di tutta la nostra società. Questo a patto di saper rinnovare molti dei nostri paradigmi culturali e linguistici – oggi ancora legati ad una cultura alfabetica di stampo post-rinascimentale – anche in ambito didattico: non dimentichiamo che se gli insegnamenti teorici praticano da sempre, attraverso la scrittura, l’insegnamento a distanza (non è un caso che il libro costituisca il sussidio didattico per eccellenza) gli insegnamenti pratici e laboratoriali non hanno mai avuto a disposizione prima d’ora gli strumenti tecnologici adatti per essere svolti in questo modo. La multimedialità, con le possibilità che offre di telepresenza, di realtà virtuale ed aumentata, di comunicazione partecipata, potrà rimanere come prezioso strumento didattico anche dopo la fine dell’emergenza.
5 – Esiste a suo avviso una differenza tra l’Accademia e l’Università nel modo di affrontare la crisi dovuta al COVID?
R: Diciamo che esiste una differenza fra il modo di affrontare la didattica a distanza delle materie teoriche e quello delle discipline che prevedono un versante pratico e laboratoriale, e che ovviamente in Accademia esiste una preponderanza di queste ultime, unita ad una tradizione – desunta dalla storia della “bottega” – di un rapporto aperto, diretto e dialogico fra docenti e studenti; ma la rivoluzione linguistica connessa all’accelerazione tecnologica in corso è un fatto che riguarda tutti allo stesso modo. Nel caso della cosiddetta lezione frontale, ad esempio, occorre a mio avviso, sapersi sganciare dall’impianto testuale e “teatrale” del “punto di vista principe” relativo alla lezione tradizionale, che prevede un palco centrale e degli spettatori con limitate possibilità di partecipazione. Nell’iper-luogo – piuttosto che non-luogo – della teleconferenza – cioè in quello che con Gianluca Nicoletti mi piace definire “aldilà catodico” del monitor interattivo – non esiste a priori gerarchia nélogos verticale, se non simulando un desueto modello televisivo, ma piuttosto la possibilità di un’esplosione frattale – della comunicazione – quasi cubista nella moltiplicazione dei punti di vista nello spazio virtuale. Questa condizione, se sapientemente gestita in termini di comunità, offre la possibilità di realizzare appieno un “ambiente di apprendimento” nel quale ognuno può essere il centro. Gli interventi degli studenti – mi dice la mia esperienza e quella di molti colleghi – si moltiplicano, nel corso delle lezioni a distanza: in parte certamente per il loro essere nativi digitali, ma soprattutto (e questo non è in contraddizione) per l’essere virtualmente collocati nel “palazzo della memoria” di una comunità di soggetti dell’apprendimento non assoggettati – e non è solo un gioco di parole – alla verticalità della comunicazione.
6 – E il caso del laboratorio d’arte tenuto a distanza?
R: Questa è certamente una situazione diversa e più complessa; ma anche in questo caso le tecnologie digitali di penetrazione multisensoriale ed immersiva (a volte può bastare disporre di diversi punti di ripresa video, magari riutilizzando a costo zero uno smartphone come seconda o terza camera), unite ad un certo grado di alfabetizzazione sintattica e grammaticale da parte del docente in termini di regia e composizione, può – in modo sincrono o asincrono – mostrare tecniche ed illustrare procedure in maniera estremamente più efficace e dettagliata di quanto può accadere in un’aula affollata e talvolta male attrezzata. Noi a Milano, proprio allo scopo di individuare delle “buone pratiche” nella didattica a distanza del laboratorio d’arte, abbiamo costituito durante il lockdownun gruppo di docenti – che abbiamo chiamato GARAGE Brera – interessati a sperimentare e formalizzare tecniche e metodologie didattiche innovative in questo senso. Dal nostro lavoro di ricerca stanno nascendo esperienze e proposte metodologiche estremamente significative, i cui risultati abbiamo presto l’intenzione di pubblicare. Centrale nella didattica dell’arte è ad esempio il concetto di “Studio d’artista”; il fatto di poter realizzare attraverso la tecnologia ciò che l’artista e collega Ignazio Gadaleta – docente di pittura – ha recentemente definito “atelier diffuso”, non costituisce certo una limitazione rispetto la normale attività didattica, ma un suo straordinario potenziamento. Se all’intelligenza artificiale riesce ad unirsi una “intelligenza connettiva” ormai tecnologicamente attuabile ed a questo si aggiunge un pensiero creativo e divergente di qualità, credo che le Accademie possano dare un contributo unico e prezioso al dibattito attuale sulla formazione, non solo a distanza e non solo in ambito artistico.
7 – Per concludere, cos’è che più l’affascina nella rivoluzione tecnologica in corso?
R: Direi l’aspetto “esoterico”, se mi permette di usare questo termine. Sono profondamente convinto di una cosa: la rivoluzione digitale arriva come fenomeno conclusivo di una serie storica di straordinari cambiamenti epocali che nell’insieme abbiamo chiamato modernità, e di cui l’arte – o ciò che noi oggi chiamiamo in questo modo – non è che un particolare risvolto. Cambiamenti che hanno riguardato le scienze materiali come quelle dello spirito, dalla religione alla filosofia alla psicologia, e che hanno però lasciato nella società una sorta di vuoto esistenziale che in qualche modo l’informatica va a colmare, con la sua nuova, particolare, talvolta inquietante, versione di “invisibile” e di immaterialità; mi riferisco ovviamente alla percezione che ne abbiamo ed al cambiamento cognitivo che produce in noi. Non è un caso che si possa parlare ad esempio – come fa Derrick de Kerckhove – di “inconscio digitale”, ad indicare quella zona d’ombra delle reti telematiche che corrisponde alla traccia indelebile della nostra persona online, la quale – conoscendo di noi più di ciò che noi stessi conosciamo – costituisce la merce più ambita dal cosiddetto “capitalismo della sorveglianza”. I mondi virtuali e paralleli che il digitale crea, il mondo-specchio del Bianconiglio, per citare il film Matrix, cosi simili ai mondi della magia e dello spiritismo dei secoli scorsi, sembrano veri e propri “cieli” di una nuova metafisica scientista; a patto di non giungere alle conclusioni iperboliche e talora terrificanti del Transumanismo, circa una prossima migrazione, della vita intelligente sul pianeta Terra, dall’uomo al Cyborg, l’ibrido uomo-macchina dei racconti di fantascienza.
Carlo Franza