Venezia è un gioiello, un “sogno” che tutti dovrebbero nella loro vita vivere almeno una volta. Per chi ancora non ha vissuto questo “sogno”,  riporto, a singolare memoria per i più, le impressioni ed i pensieri di  illustri letterati che nei secoli  hanno  visitato la città. “Non c’è luogo che non contenga qualche cosa di romantico; ma Venezia, come Oxford, ha conservato lo sfondo per il romanzo; e per chi è veramente romantico lo sfondo è tutto, o quasi tutto” (Oscar Wilde). “Chi non deve reprimere un brivido fugace, una segreta timidezza e angoscia, quando sale per la prima volta o dopo lunga dissuetudine su una gondola veneziana? La singolare imbarcazione, tramandata tale e quale dai tempi delle ballate e così inusitatamente nera come di tutti gli oggetti di questo mondo sono soltanto le bare, fa pensare a tacite e criminose avventure fra lo sciacquio notturno dei canali, e ancor più alla morte stessa, a feretri, a tenebrose esequie, all’ultimo silenzioso viaggio”(Thomas Mann). “La laguna è opera antica della natura. Dapprima la marea, il riflusso e la terra in azione reciproca, quindi il progressivo abbassamento delle acque preistoriche, fecero sì che all’estremità superiore dell’Adriatico si formasse una considerevole zona paludosa, che, dopo esser stata sommersa dall’alta marea, viene parzialmente lasciata libera dal riflusso. L’arte umana s’impadronì dei punti più eminenti, e così nacque Venezia, collegando in sé cento isole, circondata da cento altre”(Johann Wolfgang Goethe). “Ma quando siamo usciti, stanchi e intontiti, dalla stazione di Venezia e abbiamo visto il Canal Grande e i palazzi marmorei che sfioravano l’acqua melmosa, quel gioiello di cultura che si dondolava sui canali fetidi e muffosi, abbiamo improvvisamente compreso quanto forte e tenace è l’uomo e quanto meraviglioso è il suo spirito, e si è destato in noi un tale amore per l’umanità, l’umanità con le sue pene e le sue epidemie; e siamo penetrati ad occhi aperti dentro un sogno, perché Venezia è il sogno di ogni città….”(Abraham Yeshoua).

Questa illuminante introduzione per ricordare a tutti la grandezza di Venezia nel mondo, la grandezza della città e la grandezza dei veneziani. Basti pensare che  la Repubblica di Venezia, a partire dal XVII secolo Serenissima Repubblica di Venezia, è stata una repubblica marinara con capitale Venezia. Fondata secondo la tradizione nel 697 da Paoluccio Anafesto, nel corso dei suoi millecento anni di storia si affermò come una delle maggiori potenze commerciali e navali europee.

Grande, grande Venezia. Il pittore inglese William Turner, nonostante abbia trascorso a Venezia soltanto quattro settimane nel corso di tre diversi viaggi, catturato dalla luce veneziana, ha dipinto un’immagine incantevole di Venezia, quasi avvolta da una nebbia fascinosa, che appartiene tuttora al nostro immaginario collettivo.  Lord Byron aveva iniziato ad amare Venezia grazie alle testimonianze dei grandi letterati, tra cui Shakespeare: vi aveva trascorso cinque anni, durante i quali aveva avuto numerose relazioni amorose, inserendosi all’interno dell’ambiente veneziano. Molti luoghi sono legati al celebre poeta inglese, come Palazzo Mocenigo sul Canal Grande, dove il Lord visse dal 1816 al 1819 e iniziò la composizione del suo poema satirico Don Juan. Byron ha imparato l’italiano, il veneziano e l’armeno, anche grazie alla sua frequentazione del convento di monaci situato presso San Lazzaro degli Armeni. Nel 1717, questa isola era stata donata dalla Repubblica di Venezia al fondatore del convento, che aveva raccolto un gruppo di cultura armena. Byron si era innamorato dell’idea di conoscere questa cultura e, oltre a documentarsi presso la biblioteca dell’isola, conosceva la tipografia  presente in loco.

Charles Dickens, che era giunto a Venezia nel 1844, a seguito del suo viaggio, il dodici novembre dello stesso anno, aveva scritto ad un amico: “La bellissima e meravigliosa realtà di Venezia va oltre la più stravagante fantasia di un sognatore. L’oppio non riuscirebbe a creare un posto come questo, e un posto così incantevole non potrebbe venire fuori neppure da una visione. Tutto quello che avevo sentito, letto o fantasticato su Venezia è lontano mille miglia. Sai che tendo a essere deluso quando si tratta di aspettarsi troppo ma Venezia è sopra, oltre, al di fuori dell’immaginazione umana. Non è mai stata valutata abbastanza”. Il mito di Venezia e la sua rappresentazione prendono forma in The stones of Venice, opera del pittore e scrittore inglese John Ruskin, che era giunto a Venezia nel 1849, dopo la Restaurazione, durata soltanto diciotto mesi, della Repubblica di Venezia, ad opera di Daniele Manin. Questo testo cambia il modo di vedere Venezia, in quanto la città non è soltanto descritta efficacemente grazie alla penna degli autori, ma è anche rappresentata visivamente attraverso una serie di disegni suggestivi che la raffigurano. Ruskin esalta la Venezia medievale, contrapponendola a quella rinascimentale e barocca. I disegni di Ruskin sono evocativi e sottolineano l’affinità con il movimento pre-raffaelita inglese. Il testo ha un enorme successo, viene tradotto in francese, ed è letto da Marcel Proust, che si sente inizialmente condizionato dall’autore nella sua scelta di raccontare Venezia, una città mitizzata tra il sogno e le pietre di Ruskin. Proust ha visitato Venezia due volte, tra il maggio e l’ottobre del 1900, ed ha alloggiato all’Hotel Europa. Secondo l’autore, Venezia non è solo un luogo ideale, ma è una fonte essenziale di ispirazione per far emergere nuove e ulteriori idee: “Ogni inquietudine riguardo al futuro, ogni dubbio intellettuale erano dissipati. Quelli che mi tormentavano un attimo prima a proposito della realtà stessa della letteratura erano spariti come per incanto […] era Venezia, di cui i miei sforzi per descriverla e le sedicenti istantanee scattate dalla mia memoria non m’avevano mai detto niente e che la stessa sensazione provata un tempo su due lastre ineguali del battistero di San Marco m’aveva restituita assieme a tutte le altre sensazioni collegate quel giorno ad essa e rimaste in attesa al loro posto, da cui un’improvvisa combinazione le aveva fatte uscire, nella schiera dei giorni dimenticati”. Venezia è la città dell’incanto, della meraviglia, della luce che pervade e della nebbia che offusca, della visione che supera l’immaginazione umana. Dopo tutto ciò che vi abbiamo narrato, mi è triste dire che Venezia ormai parla cinese, diventa territorio cinese, viene comperata dai cinesi. E comperano bar, ristoranti, agenzie di viaggio, e stanno mettendo le mani anche sugli alberghi.

Abbiamo  chiesto a Mattia Carlin (vicepresidente Unione Consoli d’Italia), veneziano doc, le sue impressioni su una città in agonia  che ricorda “Morte a Venezia” (titolo originale Der Tod in Venedig) un racconto lungo (o ‘romanzo breve’) dello scrittore tedesco Thomas Mann pubblicato nel 1912; eccole:  “  Chi può salvare Venezia? Solo chi la ama veramente e la rispetta senza umiliarla. Sembra un concetto semplice ma non lo è affatto. Ancora oggi, troppe imprese, aziende e centri di interesse tendono a considerare Venezia come un luogo dell’immediato profitto, senza mostrare un’attenzione particolare ed una visione strategica per la città. Proprio per questo, quelli che amano e si interessano di Venezia sono soprattutto le persone che la vivono intensamente e l’ammirano per la sua unicità. Uno dei problemi più importanti della città è senz’altro quello relativo al suo calo demografico. La Venezia insulare ha perso, nell’arco di 60 anni, due terzi della popolazione, passando da 150.000 abitanti a soli 50.000. Per cercare di invertire questa tendenza, occorre pensare, da una parte, ad una politica per la casa e per le famiglie che permetta, grazie ad esenzioni fiscali, di ridurre i maggiori costi di acquisto e di affitto degli immobili. Un appartamento a Venezia insulare costa mediamente 3 volte di più che in terraferma e per cercare di ricomporre questa anomalia le esenzioni fiscali potrebbero essere lo strumento più semplice e più facile per risolvere questo tema. C’è anche un altro importante aspetto da considerare, ed  è quello delle grandi imprese a Venezia che progressivamente hanno perso tutti i centri direzionali di controllo e di rappresentanza e quello dei tantissimi uffici pubblici e degli enti locali che sono stati trasferiti a Mestre; l’ultimo esempio è stato quello della Camera di Commercio. Occorre attirare centri internazionali, ma anche importanti imprese ed enti della grande finanza, della ricerca e sviluppo tecnologico (con laboratori in collaborazione con università per le nuove tecnologie come nel settore delle nanotecnologie), della ricerca e sviluppo aeronautico eccetera. Oggi poi, in seguito alla pandemia, è diventato fondamentale il settore dell’informatica e sempre di più tutto ciò che naviga in rete è significativo per la nostra esistenza. Perché non fare di Venezia un centro fondamentale per grandi imprese tipo Microsoft?  Ma tutte queste cose hanno bisogno di una logistica, ad esempio mancano i parcheggi; se un Veneziano o un suo ospite oggi volessero parcheggiare l’auto lo potrebbe fare solamente al Tronchetto o a Mestre perché i garage di Venezia sono stracolmi. Potrebbe essere progettato un parcheggio nella zona di San Basilio, vicino alle zattere, in prossimità della città, facilmente raggiungibile da parte dei cittadini. Così si offrirebbero forse i servizi che sarebbero essenziali per coloro che potrebbero lavorare in istituzioni internazionali e in centri di grandi imprese multinazionali che si insedierebbero di nuovo a Venezia”. A Cannaregio, quartiere di Venezia, tre storici locali a conduzione veneziana sono stati venduti e poi comprati da imprenditori cinesi. Il primo è il bar gelateria Da Nini, al civico 1306 di Cannaregio, accanto al ponte delle Guglie, ha iniziato la sua attività nel 1972, a conduzione familiare, ha risentito dell’effetto Covid. Come si legge su ‘Il Gazzettino’, in una dichiarazione rilasciata dai figli Valter e Mauro: “Siamo stanchi – confida Valter – Il bar ha 46 anni di vita e noi 30 di lavoro, a svegliarci presto il mattino e rincasare tardi. Una volta qui si producevano gelati e dolci in proprio, con le macchine che lavoravano tutto il giorno e si rompevano spesso. Un tempo si lavorava molto ma anche si guadagnava. Adesso il gioco non vale più la candela ed è un’attività che abbiamo sconsigliato ai nostri figli perché senza più prospettive”. Poco distante, al civico 1038, si trova invece il Ma Ciao! e infine al civico 1022 il bar chiamato MQ10.  Tutti e tre i locali da fine marzo cederanno il posto a nuovi proprietari di origine cinese. Saracinesche abbassate, vetrine coperte di polvere, merce sbiadita, vecchi cartelli che annunciavano ferie fino a fine marzo, poi a metà aprile 2020, quindi più niente. I negozi cinesi di calle dei Fabbri e calle dei Fuseri sono ancora chiusi e mentre tutt’intorno si accendono le insegne, la Chinatown dietro Piazza San Marco sembra ancora in lockdown. I negozi di borse, i bar, i ristoranti gestiti dagli orientali erano stati i primi a chiudere, già verso la metà di febbraio, man mano che le notizie sul coronavirus si facevano più preoccupanti. Il drastico calo di turisti e la diffidenza a entrare nelle loro botteghe avevano spinto i negozianti cinesi a sospendere l’attività. Uno dopo l’altro, lungo calle dei Fuseri, calle dei Fabbri, ma anche calle larga San Marco – zone ormai quasi esclusivamente di botteghe di borse e vestiti a pochi euro – i negozi avevano chiuso, presto seguito da bar e ristoranti che avevano cercato di resistere un po’ più a lungo.

Così com’era apparsa dal nulla, la comunità cinese sembra improvvisamente sparita. Nel giro di pochi anni, vetrina dopo vetrina, locale dopo locale, era riuscita a prendere possesso di intere calli in zone centralissime, a ridosso di Piazza San Marco, in calle della Mandola, in Strada Nuova, dove un affitto medio va dai 5 ai 10 mila euro, scalzando storici negozi veneziani di vicinato. Tutti con la stessa merce, soprattutto borse in simil pelle, scarpe e vestiti a 10 euro, ma anche souvenir, chincaglieria e vetri dozzinali, i negozi cinesi avevano preso il posto delle botteghe di alimentari, dei fruttivendoli, dell’abbigliamento giovane, della pelletteria fatta in Veneto. Tutti egualmente in grado di pagare affitti molto alti che per i commercianti veneziani erano diventati proibitivi. La Chinatown si era espansa al punto da occupare quasi la metà delle attività commerciale dei Fabbri e una bella fetta di calle dei Fuseri. Negozi aperti sette giorni su sette, anche a Natale Capodanno, da mattina a sera inoltrata, nonostante fossero sempre quasi vuoti. Poi è arrivato il coronavirus e la comunità si è allarmata, arrivando a chiudere persino un supermercato all’Accademia. Prima la paura del contagio da parte dei clienti, quando il resto della città era ancora aperto. Poi la chiusura si è protratta e più di qualcuno sostiene che forse il volto di calle dei Fuseri e calle dei Fabbri cambierà di nuovo, questa volta in chiave veneziana. Venezia ormai parla cinese. Bar e ristoranti, ma anche agenzie di viaggio. E fra poco alberghi. Se nel 1998 le imprese attive registrate a nome di cittadini provenienti dalla Repubblica popolare cinese erano in tutto 45, adesso in città sono 850. Ma non è proprio così,  i dati sono superiori,  in quanto non sempre il passaggio di proprietà – da un veneziano ad un cinese – è registrato regolarmente visto che, tra l’altro, chi vende e chi compra maneggia molto “nero”. Il comandante regionale della Guardia di Finanza, il generale Giovanni Mainolfi, ha dato vita  con i suoi uomini una strategia di studio e di monitoraggio che permette di capire  come stanno andando  i passaggi  di mano e di monitorare quanto succederà.  Pensate  che, un anno prima della chiusura forzata, una pizzeria-ristorante nei pressi di piazza San Marco è stata affittata da una donna cinese a 20 mila euro al mese. I cinesi, anno dopo anno, sono entrati nel business miliardario del turismo veneziano, silenziosamente  e senza rumori,  penetrando a fondo nel tessuto economico della città, ma  anche guardandosi bene dal pagare le tasse. Basti dire che, secondo i dati della Guardia di finanza regionale, dal punto di vista erariale al 31 gennaio 2019 ci sono 10.214 codici fiscali di imprenditori cinesi che, a fronte di un debito complessivo iscritto a ruolo per oltre 900 milioni di euro, devono ancora 867 milioni di euro al Fisco. Tutto ciò lascia capire  che i cinesi che lavorano a Venezia versano al Fisco italiano uno zero assoluto. Ma il problema  riguarda la provenienza dei capitali perché, quando la Finanza va a controllare -ha dichiarato il Generale della Guardia di Finanza di Venezia a Maurizio Dianese al Gazzettino.it-, scopre che “i soggetti che risultano titolari formali delle nuove iniziative imprenditoriali – sia quelle costituite ex-novo sia quelle frutto di passaggi di gestione – non presentano un profilo reddituale/patrimoniale tale da giustificare lo sforzo finanziario sotteso all’avvio delle attività”. Tanto che  spesso, spessissimo  ci si trova di fronte al dipendente cinese di un bar italiano, che porta a casa 800 euro al mese e che improvvisamente ha le risorse necessarie per diventare il titolare di quello stesso bar nel quale ha lavorato.Vi pare possibile tutto ciò? “Sul piano finanziario, poi, è stato rilevato che il pagamento delle operazioni avviene di norma attraverso il ricorso a disponibilità bancarie, dichiaratamente alimentate da prestiti di parenti e conoscenti non sempre facilmente identificabili e, talvolta, provenienti direttamente dall’estero – spiega la Guardia di Finanza  a Il Gazzettino.it- il che limita di molto le possibilità di concreta ricostruzione dell’origine della provvista”. Bisognerebbe infatti che gli investigatori fossero autorizzati  – chiedendo l’intervento del Ministro della Giustizia  Bonafede e del Ministro degli  Esteri  Luigi Di Maio per andare a scartabellare  in un conto corrente di una banca cinese. Ma questo non è possibile neppure con rogatoria internazionale, perché in Cina il Comunismo detta legge antidemocratica non solo in quel paese, ma pensa di fare lo stesso anche qui da noi. Ci ha messo in guardia persino l’illustrissimo  Ambasciatore Giulio Terzi,  già Ministro degli Esteri  del Governo Monti, in una bellissima intervista al collega  Stefano Filippi del quotidiano “La Verità”.

Carlo Franza 

 

 

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