Alla Galleria Bianconi di Milano   troviamo una bellissima esposizione, una mostra che ho sentito molto vicina alla mia estetica,  grazie al mio modo di vivere e sentire l’arte contemporanea.  E’ la mostra “Ditte Ejlerskov & Pedro Matos. Leaving No Trace”, una  doppia personale in cui  sono presentate le diverse ricerche di due artisti internazionali, la danese Ditte Ejlerskov (1982) e il portoghese Pedro Matos (1989).  I due artisti  si confrontano con opere inedite e dello stesso formato in un progetto incentrato sul processo di sottrazione e annullamento dell’immagine nella pittura contemporanea,  che è un po’ una volontà analitica, una sorta di ritorno all’ordine, una volontà di  allontanarsi da tutte le mitologie  avanguardistiche  e di pensare  a un rinnovamento  della pratica  pittorica.

“Leaving no trace”  che sta per “senza lasciare traccia” è il titolo della mostra in cui il senso di “traccia” è indagato, come scrive nel testo di presentazione il curatore, da due differenti punti di vista: quello etimologico della presenza accennata, del lascito, dell’accenno, che emerge potente dal lavoro di Pedro Matos e quello, vibrante e intimo, della rimozione, della non -presenza, di “un’alterità che non si è mai presentata ne potrà mai presentarsi” che connota l’opera di Ditte Ejlerskov.

Pedro Matos come Brice Morden,  esponente di spicco della pittura opaca, lascia vivere  la superficie nera opaca dei propri dipinti con “tracce”,  grafie criptiche, nei toni che vanno dal rosso al viola,  dal blu al grigio e bianco, che danno vita ad un ‘ icona astratta, per cui l’artista dialoga  con lo spazio  ambientale nel segno  della disseminazione, ed  anche di una certa lievitazione  e navigazione  che fa oscillare questi grafemi  tra superfice e profondità, senza rinunciare  all’emozione del gesto  e alle capacità di sintonizzarsi  con le tensioni della mente. Fuorviante mi pare quanto  si asserisce nel testo in catalogo  e cioè che  il processo del lavoro di Pedro Matos è “concettualmente assimilabile alla cultura urbana e allo street – style tipico del graffitismo e del cut-up dei cartelloni pubblicitari”; ciò mi pare oltremodo riduttivo, perché invece in quelle tracce minime, in quella “scrittura” ci sono tracce di totalità, memorie ritmiche spaziali, immagini dense di andamenti controversi del segno e di squillanti cromie, narrazioni frammentate sospese sulla soglia di un probabile infinito. E, dunque, tutto cresce  come pittura  nella sua pienezza fisica, proprio come “area di coscienza della pittura”, che ha guardato  anche a una sorta  di immaginazione del futuro, dove le immagini  totali che ci porge,  frutto ed equilibrio di idea e prassi, progetto ed esecuzione, sono fuoriuscite da un atlante  della contemporaneità, meglio ancora da una enciclopedia digitale.

Ditte Ejlerskov  nei suoi “Dream Gradients”,  viceversa , azzera ogni immagine e potremmo  ancora definirla  quasi una “mistica della pittura”, perchè qui   vive la lucentezza del colore, della pittura, di una materia che si trasforma prima in colore e poi  in luce vibrante. L’artista danese lavora per monocromie, in essi  lascia movimentare la gradienza, ovvero il gradiente, che altro non è che la stessa  pittura che si accalora, trascolora, si schiarisce,   vive di toni  che vanno dall’intensità alla sommessità, in  una sorta di purificazione dalla terra al cielo, dall’alto in basso, proprio per neutralizzare  possibili associazioni cromatiche  di tipo rappresentativo. E abbandonando  ogni progetto monocromatico,  che si  rende autonomo da vincoli referenziali, lascia affiorare spazialità d’intensa purezza luminosa. Il campo della pittura diviene  luogo di processi mentali e sensoriali come decantazione della luce  per svelare l’invisibile attraverso le qualità interne della pittura.  Citando una frase di Mark Rothko che l’artista ritiene fondante per il suo lavoro, Ditte Ejlerskov “usa il colore semplicemente come uno strumento”.

La superfice pittorica è creata  e si movimenta attraverso  sottili strati di pittura,  in un campo percettivo  del colore-luce, un  colore  che diventa eternamente vivo, rigenerante,  impalpabile come pulviscolo atmosferico, in una mutevole geometria  di valori interiori e di senso poetico delle vibrazioni. Al centro della ricerca di Ditte Ejlerskov viene posta dunque l’esplorazione della potenzialità della pittura come medium  e come transito, viaggio, giacchè l’esperienza del vedere  comporta la somma di tanto passaggi  -gli stessi che notiamo nelle opere-  che sono il punto di forza dello spazio espansivo della luce.

Carlo Franza

 

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