Molti degli artisti che hanno operato negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta del Novecento, e che hanno avuto in  un quegli anni un degnissimo attestato sulla produzione del loro lavoro, a distanza di decenni hanno fatto perdere la loro presenza  -per motivi non sempre a loro imputabili- non solo sul mercato che ne controlla oggi la partecipazione storica, ma di questi spesso non appaiono opere collocate in rassegne significative e neppure si progettano personali o retrospettive  che ne possano rinfrescare la memoria. Ultimamente il lavoro di Raymond Israel, attivo a Milano negli anni Sessanta e degnissimo artista protagonista dell’arte informale, cui si degnarono di scrivere i colleghi Marco Valsecchi (1960) e Giorgio Kaisserlian (1960), è stato proposto con due personali da suoi estimatori e collezionisti, prima a Milano alla Fondazione ATM ed oggi al Plus Florence di Firenze nel Progetto “Scenari”.  

A Nietzsche dobbiamo l’idea secondo cui la grande opera d’arte ci parla quando in ogni suo tratto, in ogni particolare, possiamo pensarla e viverla in modi diversi. L’arte si muove spesso nella sfera dell’inesprimibile, tuttavia ci dà gli elementi per scoprire dove, quando, come si è creata l’opera. In modo più immediato, ci fa sapere la situazione e lo stato d’animo dell’artista. E sono proprio tali elementi a movimentarci attorno al percorso artistico di Raymond Israel, un percorso vivace e colto, intenso e laborioso, creativo e geniale. Il suo apprendistato pittorico è avvenuto a Milano negli anni Cinquanta del Novecento ed esattamente all’Accademia di Brera, allievo di Pompeo Borra; ma è negli anni a cavallo tra la fine dei ‘50 e i primi anni Sessanta che Raymond Israel vive quella movimentazione di correnti artistiche non solo italiane, ma talune anche di piano internazionale. Nel 1958 aveva tenuto la sua prima mostra nella famosa galleria storica Barbaroux in Via Santo Spirito a Milano e nel 1960 ancora una bellissima mostra a Palazzo Durini ancora a Milano. Una sorta di consacrazione pittorica per il giovane artista che si affacciava nel mondo dell’arte con il sostegno della critica più avvertita. Il suo lavoro si innestava allora nel clima dell’informale, anzi meglio dire  che    Israel si muoveva sì nel pieno della  stagione dell’Informale, in cui gravitavano le idee dello storico dell’arte e critico Francesco Arcangeli che costruisce la sua ipotesi di “Ultimo naturalismo” o anche di quello che è stato chiamato  “naturalismo padano” come nei  due saggi pubblicati sulla rivista Paragone: “Gli ultimi naturalisti” (1954) e “Una situazione non improbabile” (1956); ma il nostro artista  usciva già dalla provincialità italiana per guardare oltralpe anche grazie ai viaggi che compiva spesso, respirando l’evoluzione dell’informale in quell’espressionismo astratto di stampo americano.  Molte tele dell’epoca e degli anni Sessanta  svelano per l’appunto  il rapporto panico con la natura, il senso del “due” (“i nuovi pittori sentono, cercano il ‘due’: il limite delle nostre possibilità, la religione naturale”), che è poi il perno e il nucleo di tutta la riflessione critica portata avanti da Arcangeli, presentando il gruppo di artisti composto da Ennio Morlotti, Pompilio Mandelli, Sergio Vacchi, Vasco Bendini, Sergio Romiti, Mattia Moreni: “La nostra civiltà e la nostra partecipazione a un rivolgimento morale, per cui il significato dell’azione umana si è fatto più mobile, e infinitamente irradiante verso il cosmo; un concetto della natura sempre più interiore e nuovamente animistico, il senso di una osmosi eterna tra noi e l’universo, tutto questo non ci permetterà più di tornare al paradiso perduto della classicità greco-romana o del Rinascimento italiano” (Una situazione non improbabile, “Paragone”, 1956). La natura e i paesaggi di Israel sorretti da un chiaro disegno ordinatore mantengono una sensibile referenza al visibile, pur guardando ai principi dell’informale, ovvero a quel nodo generativo di matrice esistenziale che aveva scosso la cultura figurativa italiana, in consonanza con quella europea e statunitense, a partire dal secondo dopoguerra, nel decennio 1950-1960.  E le ragioni intime di queste tracce emozionali affidate alle tele ospitano anche vaghi echi vangoghiani. Dipinti che hanno una bella resa atmosferica, con un serrato trapasso di toni e di macchie, retti da una struttura di solido impianto che guardando a Chighine e a De Stael sono certo dichiarazioni di alata spiritualità, ma costituiscono un passaggio fondamentale nel cammino di edificazione di una propria identità artistica. Il capitolo pittorico che si svolge tra la fine degli anni Sessanta e primissimi anni Settanta, a cui Israel dà nome di Babilonia, lascia leggere forme geometriche a linea curva che mostrano una percezione sensibile dello spazio, spesso intersecantesi, in un tracciato bicolore quasi di vuoto-pieno. Variazioni di forme, nitidezza delle superfici, che lasciano pensare da una parte al lavoro dello statunitense Donald Judd e dall’altra a una serie di artisti italiani che hanno vissuto le geometrie in modo non solo ottico e di esercizio globale delle facoltà percettive, ma inseguendo una novella estetica di neoplasticismo. Poi nuovamente la poesia della natura, una liberazione fantastica di forme e colori, in cui esprime un’energia potente e compressa che coinvolge lo spazio circostante. Un lavoro artistico per lo più sull’onda dell’espressionismo astratto, in cui si è misurato per estrarre una specie di essenzialità delle forme, grazie a questa conoscenza della realtà realizzata dalla pittura; i volumi esploravano gli spazi come delle architetture viventi, ma Israel alla fine rinunciava alla natura della luce per ottenere degli spazi su cui concentrare la forza del gesto”.

Il pittore Raymond Israel nasce ad Alessandria d’Egitto il 3 giugno 1924 da famiglia ebrea: padre turco e madre bulgara. Ottimo studente ad Alessandria, il padre gli fa spesso cambiare scuola nella ricerca di stimoli maggiori. Giovane, anticonformista, insofferente alle regole della società fugge di casa e fa anche l’esperienza del kibbutz prima che il padre lo costringa a tornare. Ad Alessandria conosce Janette, si sposano ed ella rimarrà sempre un appoggio sereno e stabile. Quando il padre e i parenti insistono affinché Raymond partecipi attivamente all’azienda di famiglia Janette difenderà la sua scelta di fare il pittore. Raymond giunge a Londra nel 1948 dove comincia a studiare alla St. Martins’ School of Arts. Dal 1949 al 1953 a Parigi frequenta l’Accademie des Beaux Arts col Prof. Narbonne. Nel 1953 Raymond e Janette sono a Milano, qui trovano un’atmosfera ospitale e così decidono di fermarsi. Frequentano il Lido e fanno molti amici. La loro casa in viale Monte Rosa ha un terrazzo dove Israel può dipingere e dedicarsi totalmente alla pittura. All’Accademia di Brera, è allievo di Pompeo Borra, il quale apprezza moltissimo il suo raro fervore al lavoro e allo studio. Di cultura raffinata, Israel ammira le soluzioni e le belle innovazioni formali delle correnti artistiche contemporanee.  Israel vuol dare alla sua pittura una forma che sia espressione sincera e concreta del suo pensiero. Una sera a Parigi camminando con un suo amico pittore lungo la strada dell’Isle St. Louis, con giovanile fervore, si promettono di continuare a dipingere secondo questa linea. Si dedicò anima e corpo alla pittura senza peraltro preoccuparsi di esporre le sue opere. Nel 1958, su sollecitazione del padre venne allestita una mostra alla Galleria Barbaroux in via S. Spirito a Milano. Al pittore, che era ancora all’inizio del suo percorso e dunque non aveva ancora perfezionato la sua visione personale, i giudizi riconoscono talento ammirati dalla festosità del colore e dai rapporti timbrici di un naturalismo informale. Una seconda mostra venne allestita nel 1960 a Palazzo Durini sempre a Milano con pareri favorevoli della critica del tempo. In realtà Raymond non era interessato ad esporre ma solo a dipingere. Il suo stile si evolve nel tempo e alla ricerca dell’espressione sincera. La sua pittura spazia tra espressionismo astratto, informale, action painting, color field painting e materico; Israel sa che l’arte è l’indice del suo tempo, ma rimane come fatto, fuori dal tempo. Utilizza varie tecniche passando dal pennello alla spatola su tele anche di notevoli dimensioni. Tra queste vi è un genere che Israel definisce Babilonia, caratterizzato da forme intersecanti a linea curva risalenti ad un periodo tra la fine degli anni ’60 e i primissimi anni ‘70. Raymond Israel ha passato gli ultimi anni della sua vita a Parigi e poi a Venezia, dove si è spento l’8 aprile 2016. Nel 2022 si tiene una mostra personale dal titolo “Il brusio del mondo” alla Fondazione ATM di Milano nel Progetto “Nuovo Atlante delle Arti” a cura del Prof. Carlo Franza. Nell’aprile 2023 è l’illustre Storico dell’Arte Prof. Carlo Franza, a campionare una mostra personale dal titolo “Il brusio del mondo” al Plus Florence di Firenze nel Progetto “Scenari”.  Del suo lavoro hanno scritto Leonardo Borgese (1958), Mario Lepore (1960), Giorgio Kaisserlian (1960), Marco Valsecchi (1960) e Carlo Franza (2019).

Carlo Franza

 

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