Centinaia di migliaia furono le lettere che gli italiani inviarono a Mussolini durante il ventennio fascista. Lontani dal clamore delle piazze e delle adunate oceaniche, uomini e donne raccontavano al dittatore le proprie sofferenze, dando voce a un popolo povero e dolente, assai lontano dall’immagine di prosperità offerta dalla propaganda.

Il Mussolini a cui gli italiani scrivevano non era il capo forte e autoritario, ma il buon padre di famiglia. È con quell’uomo che sentivano di poter instaurare un rapporto personale. Con tono a volte colloquiale, a volte ossequioso, chiedevano favori, sussidi, raccomandazioni per un posto di lavoro. Le missive erano testi brevi, spesso redatti in un italiano incerto, da autori dalla scarsa dimestichezza con la parola scritta. Vedove con famiglie numerose, uomini che avevano perso il lavoro, giovani donne a cui mancava il corredo per sposarsi, bambini che non potevano andare a scuola per mancanza di scarpe o di libri.

“Un monumento di carta. La Segreteria particolare del Duce 1922-1943” (Editore Giangiacomo Feltrinelli, Campi del Sapere, pp.256, novembre 2024, prezzo 23,75 Euro); è questo il titolo di un libro firmato da Giovanni e De Luna e Linda Giusva. 

La corrispondenza confluiva alla Segreteria particolare del Duce, dove veniva smistata in base al contenuto e affidata a funzionari incaricati di rispondere. Attraverso stralci di lettere provenienti dall’Archivio centrale dello Stato, Giovanni De Luna e Linda Giuva ricostruiscono le molte facce del mito del Duce durante il ventennio: il leader carismatico e infallibile, la figura paterna, l’uomo di umili origini che non fa mai mancare una parola di conforto, un ringraziamento, un aiuto a chi si rivolge a lui. Un mito che il carteggio con gli italiani aiutò a consolidare.

La costruzione del mito del Duce raccontata attraverso le lettere degli italiani a Mussolini.

Leggo nel libro di Giovanni De Luna e Linda Giuva “Un monumento di carta. La Segreteria particolare del Duce 1922-1943” (Feltrinelli) : “Quando, nel pomeriggio del 25 luglio 1943, Nicola De Cesare, ultimo segretario particolare di Mussolini, uscì da Palazzo Venezia per accompagnare il Duce a Villa Savoia, non sapeva che sarebbe stato arrestato insieme a Mussolini e che non sarebbe più ritornato nella sua stanza. Lasciò quindi sulla scrivania molti documenti riservati: informazioni sulle amicizie e le frequentazioni di personaggi politici di rilievo come il conte Giuseppe Volpi, che nei giorni precedenti era stato rimosso da presidente della Confindustria, e Paolo Thaon de Revel, ministro delle Finanze, fino a febbraio dello stesso anno; richieste di raccomandazioni; relazioni sulla situazione annonaria e sul malcontento che serpeggiava in relazione alla disorganizzazione dei servizi pubblici e allo sciacallaggio degli “approfittatori”; controllo sulla corrispondenza dei parenti del Duce; inchieste nate a causa di notizie sui comportamenti scorretti di funzionari civili e militari. E molte altre carte vi dovevano essere, la cui riservatezza era tale da indurre chi entrò nella stanza, dopo aver saputo della votazione notturna del Gran Consiglio che aveva “defenestrato” il Duce, a stracciarle ma non a distruggere i pezzi minuscoli che giacciono ancora nell’archivio della Segreteria e che potrebbero essere ricomposti da qualche paziente archivista o storico, non tanto per conoscere chissà quali segreti, quanto per esplorare i criteri utilizzati da solerti e prudenti funzionari per occultare documenti ritenuti particolarmente compromettenti. Oggi quelle carte abbandonate sulla scrivania ci restituiscono, su piccola scala, le dimensioni straripanti delle attività, svariate e molteplici, che rientravano nelle funzioni della Segreteria particolare del duce. La storia di questo ufficio emerge infatti da una montagna di documenti la cui enorme quantità è però anche un indice qualitativamente rilevante della sua importanza. A Mussolini arrivava una valanga di posta; e, oggi, ognuna di quelle lettere ci racconta molto sia sugli italiani e le italiane che scrivevano al Duce, sia sul modo in cui il fascismo, nelle risposte pazientemente redatte per ognuna di esse, costruiva passo per passo il “mito” su cui si fondava il regime. Mussolini era pienamente consapevole di questo suo ruolo e della sua funzione e di una sua progressiva trasformazione in una sorta di automa, lungo un percorso all’interno del quale la funzione della Segreteria finì per assumere una importanza tale da farne oggi una strepitosa occasione per gli storici di valorizzarne, in chiave storiografica, l’immane patrimonio documentario lasciatosi alle spalle. È vero, in Italia con il fascismo le masse entrarono nella storia; lo avevano già fatto nelle trincee della Prima guerra mondiale, facendosi uccidere “in massa” in un conflitto spietato e crudele; continuarono a farlo con il fascismo, affollando le piazze del consenso al Duce, con i cuori infiammati dai suoi discorsi e dalle sue “pose”. Anche da noi il Novecento fu il “secolo delle masse”; lo fu però amputandone della libertà e della democrazia la loro tumultuosa irruzione nello spazio pubblico, costringendole in una forma di partecipazione politica che assunse i tratti di un vero e proprio credo religioso, improntato al trinomio obbedienza, disciplina, gerarchia. In questo senso, più che di fascismo sarebbe meglio parlare di mussolinismo. La persona fisica del Duce fu strategicamente al centro della vasta operazione del regime tesa alla costruzione dell’impalcatura statale e politica in cui per vent’anni furono organizzate “le masse” italiane; accanto all’operato degli organi di polizia, della magistratura, e di tutte le strutture repressive dello Stato, fu proprio nella capacità politica di Mussolini che il fascismo trovò la soluzione ai problemi posti dalla dimensione tutta novecentesca della massificazione della politica. Le masse diventarono allora quelle che applaudivano i discorsi del Duce nelle piazze italiane, che lo aspettavano pazienti sostando per ore lungo i tragitti ferroviari per i suoi viaggi su e giù per la penisola, che andarono a morire in Etiopia, in Spagna, in Grecia, in Albania, in Russia, in Africa nelle sventurate guerre che segnarono il tramonto del fascismo. Ma quelle masse erano composte da individui, da singoli uomini e da donne in carne e ossa. Di loro, dei loro affanni, beghe, dei drammi familiari o delle aspirazioni economiche e sociali si interessava la Segreteria particolare intessendo un rapporto personale che contribuiva a creare e sostenere l’illusione della presenza del Duce in tutti gli aspetti della loro vita personale.”

 

C’è da dire che il libro è un documento significativo, ricco di notizie, misura la storia e allarga alla sociologia, lascia riscoprire il ventennio, getta nuova luce sul Duce, apre agli storici e porta a nuove strade e a nuovi studi; documenti dai quali altri storici partiranno per formulazioni nuove, nuove luci e infine riscoprire un fascismo come ad oggi non l’abbiamo ancora conosciuto.

Giovanni De Luna insegna storia presso la Scuola di studi superiori dell’Università di Torino. Tra le sue pubblicazioni più recenti: La passione e la ragione. Il mestiere dello storico contemporaneo (Bruno Mondadori, 2004), Storia del Partito d’Azione (Utet, nuova edizione 2006), Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea (Einaudi, 2006) e Una politica senza religione (Einaudi, 2013). Con Feltrinelli ha pubblicato Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria (2009), La Repubblica del dolore (2011), La Resistenza perfetta (2015) e La Repubblica inquieta. L’Italia del Dopoguerra. 1945-1948 (2017).

Linda Giuva, foggiana, è sposata con Massimo D’Alema,  ha due figli, Giulia e Francesco.

Carlo Franza

 

 

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