E uno, e due, e tre. Adesso è toccato a Cecilia Sala la giornalista italiana incarcerata dallo stato canaglia che è l’Iran. E’ nel carcere di Evin il famigerato carcere della morte dei dissidenti. Prima era toccato ad altri. Le donne hanno un ruolo centrale nella lotta di resistenza agli ayatollah che hanno in mano lo stato canaglia, per questo pagano col carcere e con la vita. Gongolano Khamenei e i suoi complici. Cecilia Sala paga colpe non sue.  E’ ostaggio della Guida Suprema Ali Khamenei.  Per l’attivista italo-iraniana Samirà Ardalani “sono eroine e la loro battaglia produce un’eco fortissima nella società”. A loro dobbiamo dare voce. Valga come esempio per la stampa tutta l’annuncio di Kianoosh Sanjari. L’attivista e giornalista iraniano Kianoosh Sanjari, più volte arrestato e incarcerato nella Repubblica Islamica, si è tolto la vita a Teheran dopo aver annunciato via X che avrebbe compiuto il gesto estremo se quattro detenuti da lui indicati non fossero stati rilasciati. Lo aveva riferito Iran International. In un ‘ultimatum’ su X chiedeva il rilascio di “Fatemeh Sepehri, Nasrin Shakarami, Toomaj Salehi e Arsham Rezaei”. “Se entro le 19 di oggi – scriveva – non verrà annunciato il loro rilascio sul sito web della magistratura, metterò fine alla mia vita in segno di protesta contro la dittatura di Khamenei e i suoi complici”. Passata l’ora indicata nel post, Sanjari ha condiviso un’immagine dall’alto di un ponte di Teheran, con l’indicazione “sono le 19, Ponte Hafez”. Poi ancora in un altro e ultimo messaggio si legge che “nessuno dovrebbe essere incarcerato per aver espresso le proprie opinioni”.

“La protesta è un diritto di ogni cittadino iraniano – prosegue il post -. La mia vita finirà dopo questo tweet ma non dimentichiamo che moriamo per amore della vita, non della morte. Mi auguro che un giorno gli iraniani si sveglino e superino la schiavitù. Viva l’Iran”. Ore dopo quel post con la foto dall’alto del ponte, prosegue Iran International, la morte dell’attivista è stata confermata da fonti in Iran, anche dall’attivista Hossein Ronaghi. L’attivista era nato a Teheran, uno di quei ragazzi per cui la libertà non si negozia, si era unito da subito ai movimenti studenteschi, era stato arrestato più volte e aveva alla fine deciso di prendersi una pausa, via dall’Iran, in Norvegia e poi in America. A Washington aveva lavorato per un po’ con il canale di opposizione finanziato dagli Stati Uniti, Voice of America, ma era tornato a Teheran nel 2015 per stare con la madre anziana. Arrestato, di nuovo. Tre anni dietro le sbarre e poi liberato, la storia di tanti attivisti iraniani.

Di quell’esperienza aveva raccontato in una intervista a Radio Farda, rivelando di essere stato costretto al ricovero in un ospedale psichiatrico dove aveva subito “per nove volte cure forzate con scosse elettriche e l’iniezione di sostanze” di cui non conosceva la natura. Della pratica di rinchiudere i prigionieri politici in ospedali psichiatrici era tornato a parlare altre volte, denunciando il destino oscuro toccato ad altri detenuti. La notizia del suo suicidio ha scosso il mondo dell’attivismo iraniano, di chi era d’accordo con le sue posizioni e anche di chi con Sanjari discuteva, litigava perché su posizioni più riformiste, come il giornalista Hossein Yazdi, anche lui più volte imprigionato: “Mi sento soffocare, non credevo che lo avresti fatto, ma avrei voluto che mi portassi con te. Vorrei che non avessimo litigato”, ha scritto su X. “Non dimenticate che moriamo per amore della vita, non della morte”, ha scritto Kianoosh Sanjari prima di buttarsi dal ponte dedicato ad Hafez, il Sommo poeta iraniano.

Carlo Franza

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