20042016111831indexSono trascorsi  ben 43 anni dalla prima esposizione di Louise Nevelson a Milano, e la 2004201611051720042016110453Fondazione Marconi presenta nella sua sede di Via Tadino un nucleo di circa 80 opere, tra sculture e collages, datate a partire dal 1955 fino agli ultimi anni Ottanta. Risale  infatti al maggio 1973 la prima esposizione dell’artista naturalizzata  americana che proprio lo Studio Marconi le dedicò a Milano in un momento in cui era ancora poco nota al pubblico europeo. E’ bene precisare che dopo aver visto alcune sue opere in una mostra a Parigi, Giorgio Marconi ebbe occasione di conoscerla personalmente nel 1971, tramite la Pace Gallery di New York, e andò a trovarla nel suo studio-abitazione. Così Marconi ricorda l’incontro: “ Era un assemblage di opere fatte con avanzi delle ‘cose’ dell’uomo, cassette di Coca-Cola, gambe di tavoli, ritagli di falegnameria, doghe di barili ecc. ecc. Passai una mattinata piena: si parlò di opere, spazi, mostre, viaggi a Milano e un’infinità di argomenti, comprese chiacchiere varie sulla vita…(Giorgio Marconi, Autobiografia di una galleria, Skira 2004).

 

Da allora iniziò così un’assidua collaborazione che sarebbe durata qualche anno e avrebbe dato vita a diverse mostre, organizzate in Italia e all’estero. Affascinata da Marcel Duchamp e da altri numi tutelari  del Dada e del Surrealismo -“Il Surrealismo era nell’arte che respiravo”-  affermava ricordando gli anni del suo apprendistato, l’artista subì l’influenza dell’esperienza cubista di Picasso, dell’arte nativa del Nord e Centro America e, in particolar modo, dopo essere stata assistente di Diego Rivera e Frida Khalo, della 20042016112359pittura murale.

 

20042016110501Il suo è un linguaggio scultoreo che aderisce immediatamente al muro, mutuando i suoi segni astratti dalla pittura. Monumentalità, monocromia e dislocazione dei piani su una scarsa profondità sono le caratteristiche peculiari dei suoi assemblaggi o “environments”. Agli oggetti di recupero che compongono le sue sculture astratte, l’artista attribuiva una nuova vita “spirituale”, diversa da quella per la quale erano stati creati, sottoponendoli a un rituale preparatorio quasi a volerli decontaminare dal mondo esterno. Ricordo che il mio maestro Giulio Carlo Argan così scriveva della Nevelson: “ …quasi sempre le sculture della Nevelson sono al di sotto di un piano, fanno uno spazio profondo, e senza rilievo. E lo spazio negativo della memoria, uno spazio in cui si sprofonda lentamente e si scompare…”. Stadi intermedi, mondo esterno, sfere celesti, margini della terra,  sono questi gli appigli sui quali ha lavorato la Nevelson, da “Paesaggio lunare” a “Giardino Tropicale”, a “Ode all’antichità” del ’57 in cui le forme rimandano a Arp, Brancusi, Schwitters, fino a “Giardino notturno” del ’58 e a “Totem del sole” del 1961.20042016111331

 

Protagonista del rinnovamento della scultura nel XX secolo e delle sue trasformazioni, Louise Nevelson diceva parlando di sé e del suo lavoro: “Adoro mettere insieme le cose”. Non si può tuttavia confinare il suo repertorio c20042016110505reativo nella sola categoria dell’assemblaggio. Figura emblematica dell’arte nel Novecento, Louise Nevelson, si è distinta nel panorama artistico internazionale per la sua ricerca di un linguaggio universale. Bellissime le sue parole e il suo pensiero: “Non so se la definizione di scultrice mi si addica. Faccio dei collage. Ricostruisco il mondo smembrato in una nuova armonia”. L’armonia che si respira ad esempio in alcune delle opere in mostra, come nel monumentale Homage to the Universe, (1968, 900 x 90 cm), autentico esito di una cerimonia scolpita in cui ogni elemento conserva qualcosa della sua vita precedente; in Dawn’s Host (1959) e nella serie End of the Day che documentano la predilezione della Nevelson per l’inizio e la fine del giorno, l’alba e il crepuscolo; oltre che nella selezione di collages, realizzati in varie dimensioni e su supporti lignei o cartacei, a dimostrazione della continua attenzione dell’artista per l’immediatezza d’esecuzione, l’equilibrio della composizione, i piani prospettici e i rapporti cromatici. La scultrice è riuscita a liberare la sua vocazione costruttiva facendovi confluire le culture plastico-architettoniche  che avevano catturato la sua immaginazione e persino l’architettura coloniale messicana. Ha creato opere -e questa mostra da Marconi ne svela le caratteristiche-  che equivalessero al suggestivo significato di monumenti espressi come sintesi di civiltà organicamente collettive.

 Carlo Franza

 

 

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