Arte tra rigore e grazia, santità e devozione. Il tesoro della Compagnia di San Benedetto Bianco nel Seicento fiorentino in mostra alla Cappella Palatina di Palazzo Pitti a Firenze.
Un tesoro “segreto” finalmente riportato a luce intensa con questa mostra di notevole spessore storico-artistico e notevole storia anche dell’arte e della devozione cattolica e cristiana. Visitarla è come andare a novello battesimo. Un nucleo di opere poco conosciute, dipinte da grandi artisti del Seicento fiorentino e accuratamente restaurate, sono restituite alla fruizione del pubblico e esposte in mostra fino a maggio 2016 negli ambienti annessi alla Cappella Palatina di Palazzo Pitti. Realizzata in epoca lorenese per volere di Pietro Leopoldo, la Cappella è ancora oggi aperta al culto, ma aperta e visitabile solo in rare occasioni. La mostra costituisce una grande opportunità che vede unirsi il principio della tutela del patrimonio territoriale fiorentino con quello della sua valorizzazione, grazie ai restauri effettuati appositamente e alle nuove sale espositive, anch’esse recuperate e inserite da oggi nel circuito di visita del Museo degli Argenti.
Il tesoro esposto in mostra proviene quasi interamente dal patrimonio della compagnia di San Benedetto Bianco, che è stata una fra le più importanti e prestigiose aggregazioni laicali fiorentine. Fondata nel 1357 presso il monastero camaldolese di San Salvatore, ma trasferitasi presto (1383) nel convento domenicano di Santa Maria Novella,la Compagnia entrò sotto la stretta influenza spirituale dell’ordine dei Predicatori e trovò inizialmente sede nell’area dell’attuale Chiostro Grande e poi, in via definitiva, in alcuni locali appositamente edificati da Giorgio Vasari nel 1570 all’interno del Cimitero Vecchio. In questa sede rimase fino alla costituzione di Firenze Capitale nell’800, quando il Comune decise di allargare via degli Avelli con l’abbattimento del recinto cimiteriale di Santa Maria Novella e dei locali di San Benedetto Bianco. La Compagnia continuò tuttavia la sua attività prima in un nuovo oratorio di via degli Orti Oricellari e successivamente presso la parrocchia di Santa Lucia sul Prato, dove si estinse. Uno degli ultimi atti della Compagnia fu la cessione alla Curia arcivescovile di Firenze di tutto il patrimonio artistico che aveva accumulato nel corso dei secoli, tramite commissioni dirette o attraverso donazioni dei confratelli: la maggior parte delle opere d’arte fu depositata durante la Seconda Guerra Mondiale nel Seminario arcivescovile di Cestello e lì, ancora, si trova tutt’oggi.
Il desiderio di rendere sempre più sontuoso l’oratorio e la sede della confraternita aveva infatti spinto molti confratelli a donare dipinti, oggetti sacri e paramenti; per di più, tra i membri della Compagnia, oltre a componenti della famiglia dei Medici, nonché teologi, filosofi, letterati e scienziati,vi furono anche numerosi artisti: Matteo Rosselli, Jacopo Vignali, Carlo Dolci, il Volterrano e Vincenzo Dandini, solo per citarne alcuni. Molti di loro dipinsero per propria devozione alcune opere presentate in mostra che ben esprimono, per lo stile e la scelta dei soggetti raffigurati, la spiritualità penitente di San Benedetto Bianco, testimoniataci dalle opere a stampa e manoscritte del frate correttore Domenico Gori, quali gli Esercizi spirituali ad uso esclusivo dei confratelli, esposti in mostra.
Il centro della spiritualità della Compagnia, tanto per l’originaria derivazione benedettina quanto per l’influsso del Gori, era il sacrificio di Cristo, sommo modello di perfezione a cui ci si poteva avvicinare con un lento e faticoso processo di elevazione spirituale, svolto attraverso penitenze e lunghe visualizzazioni interiori. La meditazione frequente di quel mistero doveva sortire nei confratelli l’effetto di una vera e propria ‘immedesimazione’, al punto da provare gli stessi ‘affetti’ – cioè i sentimenti – sperimentati da chi fu presente alla Passione, come la Vergine Maria, san Giovanni e lo stesso Gesù. Per questo motivo in San Benedetto Bianco erano presenti diverse immagini che ripercorrevano le tappe principali della Passione ed esortavano continuamente i confratelli alla mortificazione spirituale e corporale di se stessi.
Il Cristo sul Calvario, gli strumenti della Passione e la Croce erano i soggetti più rappresentati. Nel ricetto d’ingresso, Vincenzo Dandini aveva dipinto una pala d’altare con “l’Orazione di Gesù nell’orto”, poi sostituita nel 1646 da un dipinto dello stesso autore raffigurante “Cristo caduto sotto la croce”. Il soggetto della prima pala fu rivisitato poco dopo da Matteo Rosselli in un affresco situato nella testata di una loggetta che fiancheggiava il cortile interno della Compagnia, denominato appunto ‘orto’, in una stretta analogia con l’Orto degli ulivi dove Cristo diede principio alla propria agonia. In una stanza situata dietro la chiesa principale e dove erano collocati i confessionali, venne posta nel 1653 la tela che qui è attribuita ad Agostino Melissi, raffigurante la “Flagellazione di Cristo alla Colonna”, il cui soggetto va inteso in rapporto alla pratica della ‘disciplina’ – cioè l’autofustigazione – che i confratelli praticavano in quell’ambiente (la corda sul primo piano del dipinto la richiama esplicitamente).
Oltre che con i dipinti presenti in Compagnia, il tema della Passione veniva divulgato mediante piccoli quadri o immagini a stampa – ad esempio “l’Ecce Homo” di Carlo Dolci o il “Cristo piagato”del Volterrano, artisti entrambi membri di San Benedetto Bianco – destinati spesso a confratelli amici, per uso privato e domestico, come continui richiami visivi a rivolgere il pensiero al sacrificio amoroso del Cristo, e al suo patimento, atto di redenzione per l’umanità.
La donazione più importante ricevuta dalla Compagnia è la serie di otto tele a soggetto biblico che il confratello Gabriello Zuti si era fatto dipingere per la propria abitazione nella seconda metà degli anni Quaranta del XVII secolo, e che lasciò a San Benedetto Bianco alla propria morte nel 1680. Si tratta di un ciclo unico, con capolavori di alcuni fra i maggiori artisti del Seicento fiorentino, i cui soggetti tratti dal Vecchio Testamento – scelti con l’ausilio di qualche dotto confratello – alludevano ad eventi precisi della vita familiare dello Zuti, segnata indelebilmente dalla tragedia della peste del 1630. Ricordiamo “Giacobbe ed Esaù, di Lorenzo Lippi, Giaele e Sisara” di Ottavio Vannini, “Ritrovamento di Mosè” di Jacopo Vignali, “Geroboamo e il profeta Achia” di Vincenzo Dandini, “Ripudio di Agadi” di Giovanni Martinelli, “Guarigione di Tobia”di Mario Balassi, “Susanna e i vecchioni”di Agostino Melissi, “Lot e le figlie” di Simone Pignoni.
Una menzione in più meritano le due tavole di Cristofano Allori (che l’odierno restauro ha meritoriamente riportato alla vita, arrestando i danni subiti nell’alluvione del 1966), raffiguranti San Benedetto e San Giuliano: esse erano in origine unite a formare la grande pala che schermava le reliquie collocate nell’enorme altare-reliquario della Compagnia e che, grazie ad un meccanismo di corte, poteva essere scenograficamente alzata per la loro ostensione.
Nel percorso espositivo della mostra “Il rigore e la grazia”, dedicata alla Compagnia di San Benedetto Bianco, è compresa la visita alla Cappella Palatina del piano terreno di Palazzo Pitti. Al pari delle sale contigue, questo ambiente faceva parte di un appartamento che lungo i secoli aveva ospitato diversi esponenti della casata medicea, compreso Cosimo III che – prima di diventare granduca nel 1670 – vi aveva soggiornato con la consorte Marguerite-Luise d’Orléans. In questa occasione volte e pareti degli ambienti erano state affrescate con quadrature, immagini allegoriche ed imprese araldiche da Jacopo Chiavistelli e collaboratori come Francesco Bettini, Cosimo Ulivelli e Agnolo Gori.
Nel 1765, per volontà del granduca Pietro Leopoldo di Lorena, la sala grande dell’appartamento terreno fu trasformata in cappella palatina con il progettodegli architetti Giuseppe Ruggieri e Niccolò Gaspare Paoletti. L’ambiente, voltato a botte, ospita un altare costruito nel 1785 su disegno di Sante Pacini, in cui sono stati riadattati alcuni commessi in pietre dure delle botteghe granducali che erano stati realizzati nel Seicento per l’altare della Cappella dei Principi in San Lorenzo: nel paliotto, l’Ultima Cena tra le personificazioni della Fede e della Carità; nel ciborio sopra la mensa eucaristica, l’Adorazione dei magi tra le figure di Sant’Atanasio e San Giovanni Crisostomo.
Alla ristrutturazione lorenese spetta anche la decorazione ad affresco, affidata al pittore neoclassico Luigi Ademollo, che effigiò nelle pareti maggiori della cappella le due scene affollate e teatrali dell’Entrata di Cristo a Gerusalemme e della Crocifissione; mentre di più antica provenienza medicea è lo stupendo Crocifisso in avorio collocato sull’altare, scolpito da Lorenz Rues (la Maddalena in bronzo è un’aggiunta di Antonio Raggi), che il cardinale Flavio Chigi aveva donato al granduca Cosimo III nel 1692.
Un elemento importante dell’arredo della cappella è l’organo, collocato nella cantoria che si eleva sopra l’ingresso, costruito nel 1855 da Odoardo Landucci su progetto di Antonio e Michelangelo Ducci.
La mostra, come il catalogo edito da Sillabe, è a cura di Alessandro Grassi, Michel Scipioni, Giovanni Serafini, ed è promossa dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo con il Segretariato regionale del Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del turismo della Toscana, la Ex Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze, la Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per le Province di Firenze, Pistoia e Prato, il Museo degli Argenti di Palazzo Pitti, e Firenze Musei. Ai lettori,agli studiosi e agli estimatori d’arte dico, non lasciatevi sfuggire questa mostra. Visitarla è come rigenerarsi alla fede cristiana. Non è poco credetemi.
Carlo Franza