Vito Melotto, il mondo salvato dalla pittura. L’artista della civiltà contadina racconta un’Italia che non c’è più.
Sono circa quarant’anni che conosco Vito Melotto un pittore veneto, veronese per la verità, trapiantato a Milano subito dopo l’ultima guerra mondiale. Dipinge, ma ha fatto per decenni il professore di pittura alle dipendenze del Ministero della Pubblica Istruzione. Ricordo che lo conobbi in occasione della sua mostra personale che tenne nel 1979 presso la Galleria Ponte Rosso di Via Brera, la Galleria che lo ha tenuto nella sua scuderia e di cui ancora ne fa parte nonostante i vecchi amici Consonni non ci siano ormai più. Devo dire che di artisti ne ho conosciuti migliaia sia in Italia che all’estero, per molti ne ho curato anche prestigiosissime mostre personali e per Vito Melotto ho curato anche la sua cartella-catalogo della prestigiosa collana della Ponterosso; per Melotto devo aggiungere che mi ha sempre colpito al di là del suo fare arte, cosa per lui nobilissima, il lato umano, la sua umiltà, il suo relazionarsi con la critica, il suo accettare i miracoli del percorso che lo hanno accompagnato e segnato. E provenendo dalle sue terre d’origine, ovvero il Veneto contadino, dopo aver fatto l’Accademia Cignaroli di Verona, quel nobile mondo lo ha miracolosamente salvato ed egli stesso lo ha mitizzato all’interno della sua pittura. L’artista affronta da sempre nelle sue opere i temi a lui piu’ congeniali, ovvero il paesaggio, la composizione nell’interno e gli interni stessi che aprono all’esterno, e la figura o le figure che spesso assumono un ruolo dominante per l’intensita’ dei soggetti rappresentati, ma c’è anche la natura morta e il paesaggio urbano. Certo la matrice veneta dei colori è sempre resistita nelle sue opere, quel tonalismo caldo ma posato, quella dolcezza del vedere paesaggi, cose e uomini, ma vi dirò che non è passato invano anche quel suo accettare il realismo esistenziale come scuola e frequentazioni che lo ha trovato impegnato a Milano nei mitici anni Cinquanta insieme anche alla sua sposa e compagna Licia Mantovani. Quindi, quella traccia di realismo, non forte, pure scava i suoi dipinti, facendogli vivere intensamente quella fedeltà all’immagine, mai abbandonata, e dandogli semmai modo di conquistare quello stile inconfondibile, un po’ francescano per così dire, capace di infondere nella storia del paesaggio italiano da lui catturato, umbro, lombardo e veneto per lo più, una solennità trasfigurata, di un mondo che a guardarlo oggi, certo tutto italiano, forse è anche un po’ scomparso. Il suo dipingere, la sua pittura, non è solo una questione tecnica, certo importante e vitale, ma una filosofia del guardare il mondo circostante, il paesaggio italiano, il mondo contadino, salvato proprio dai suoi colori e dai suoi profili e contorni, un mondo ritagliato e mitizzato come avesse un’anima, una limpidezza accesa da luci vibranti per i colori, azzurri, bianchi, rossi, gialli, viola, che segnano il tempo e le stagioni. Ma in questi paesaggi e non solo, come nei teleri in cui si stagliano le figure, il silenzio sembra avvolgere cose e persone, un silenzio generante che attraversa la costruzione delle opere. Certo le grandi lezioni dei francesi come Paul Cèzanne si leggono nelle sue opere, nel ritaglio dei paesaggi scomposti e ricomposti, capaci di sorprendere ogni volta. Le figure poi, solenni, maestose, composte, vivono la sacralità dell’esistenza, donne al lavoro, madri, figure intente a leggere, uomini calati nella loro umanità, e perfino certi personaggi del mondo sacro come vescovi e cardinali. L’umanità delle figure è celebrata anche nelle Crocifissioni, anch’esse testimonianza di un mondo, quello contadino, che vive il sacro nella quotidianità e nella storia.
Vito Melotto e’ nato a S. Stefano di Zimella (Verona) nel 1928. Ha compiuto gli studi artistici all’Accademia Cignaroli di Verona. Nel 1952 al termine degli studi lascia Verona per Milano dove tuttora risiede. Al 1960 risale la sua prima mostra personale alla Galleria Schettini che subito richiama l’attenzione della critica militante. Vanno in particolare ricordate le numerose periodiche mostre personali e collettive alla Galleria milanese “Ponte Rosso” dal 1975, e gli inviti ad importanti collettive e concorsi a premio quali: Premio Campione d’Italia, Premio Cadorago Lario, “Arte Contemporanea” a Villa Simes, Premio Arena Po, Premio Citta’ di Marsala, Biennale d’Arte Casalpusterlengo, Pro Loco di Codogno, Arte Sacra in S. Simpliciano e S. Satiro, “In Cristo la salvezza dell’uomo” Chiesa di S. Cristoforo a Lodi, “I segni dell’evento” Palazzo Comunale di Cremona, “Il convito della bellezza” Arte Sacra a Potenza, “Novoli Arte” rassegna di Arte Contemporanea Comune di Bitonto, Assessorato alla Cultura “Omaggio a Speranza” e le personali: Palazzo del Capitano del Polpolo di Reggio Emilia, Casa del Palladio di Vicenza, Galleria Rettori Tribbio di Trieste, “Incontri Scrimin” di Bassano del Grappa (VI), “Il fante di spade” di Modica (RG).
Fra i critici d’arte che di lui hanno scritto in molteplici occasioni: A. Coccia, M. Lepore, D. Villani, M. Ghilardi, C. Munari, R. De Grada, O. Consonni, C. Franza, M. Pancera, R. Bossaglia, C. Strano, E. Fabiani, M. Corradini.
Carlo Franza