Giusi Santoro e le liturgie del colore in mostra nell’Ex Studio di Piero Manzoni in Brera a Milano.
Da questa personale di Giusi Santoro, pittrice milanese di chiara fama, dal titolo “Liturgie del colore” che si tiene nell’ex Studio di Piero Manzoni, si rileva subito che la realtà naturale è un dato esistente per la pittrice, da cui non poter prescindere. Ma è una realtà che serve piuttosto di appoggio per l’immaginazione immaginativa che tende a crescere in una dimensione di libera fantasia, in un rispecchiamento di luci, colori, di sensazioni, che traggono la loro forza evocativa da un profondo stato emotivo. In questo senso il lavoro di Giusi Santoro condivide l’avventura moderna, che tende a “inventare” laddove nel passato tendeva a “riconoscere”. Le buone stagioni della pittura sono state spesso investigate e sorvegliate da artisti innovativi e dunque riproposte occasionalmente come nuove, pur con varianti capaci di stratificare rivoli sensazionali. E’ il caso del lavoro informale di Giusi Santoro, pittrice italiana di sensibile talento, che argomenta non solo l’effusione della materia, quasi che cominci da zero, ma la fa ritrovare sulla tela come corrosa da un tempo che vi batte a tratti, per cui sembra mostrare i suoi quadri come si mostra una ferita, secondo gli stilemi del pudore. C’è di più, il suo è un esercizio mentale, d’avanguardia, che volge verso un paesaggio astratto, selvaggio e dinamico, trasfigurato da finestre di colore che affiorano qua e là, fruga la realtà sotto il profilo dell’avventura, e ogni fantasia diventa cifra capillare, stazione di meditazione e di pausa. Materia e colore vivono questa solennità astratta e il mondo informale, risorge tra spessori e frantumi, tumulti, urti, gorghi, graffiature e soprattutto ai toni che sanguinano. Dietro ogni dipinto c’è una tessitura ideativa di forte spessore, grazie alla costruzione e al colore, portando questa pittura ad essere anche documento carico di spessore omogeneo. Esibisce le difficoltà sacrificali dell’io dilacerato e consunto soprattutto fisicamente, ritrova l’uomo d’oggi nelle deserte oasi, descrive piuttosto che le monotone verità dell’uomo, l’iconologia spettrale con una penombra che invade con abbagli. Poi in taluni dipinti, a quell’irrequietezza dell’immagine, alla simbolicità che affoga in un mare di colore monocromo o bidimensionale, si adegua quasi liturgicamente, come calasse dal cielo una sorta di misticismo orgiastico, una superficie capace di valori percettivi con stimolazioni emotive e inconsce. Bagliori come giochi di teofania, vale a dire apparizioni del divino attraverso la luce. Monocromi o poco più, con il privilegio del bianco, certi dipinti recentissimi che non devono leggersi in antitesi a quelli dove vi partecipa l’immagine figurale. Semmai quell’immagine irrequieta via via è divenuta ossificazione del simbolo, divenuta poi naturalmente nuvola di colore. Qui la presenza di Philip Guston e Hans Hofmann è più certa, proprio nei fondi con stesure monocrome, interrotte da presenze dai margini sfumati. I dipinti di Giusi Santoro paiono così pareti colorate, un segnare un di là e un di quà del mondo. Le tinte, poi, fanno si che l’opera non sia una parete che divide, ma il punto generatore di uno spazio sempre nuovo. Giusi Santoro con questi nuovi dipinti pare quasi saturare i colori, e in queste grandi dimensioni una generale assenza di profondità fisica è sopperita da una profondità spirituale capace di riferire capacità trasformative; il quadro non rappresenta più cose, ma è cosa in sè, non racconta più, è già compiuto e sufficiente a se stesso, leggendosi materia colorata.
La finezza di queste modulazioni di colore, che si intrecciano sulla spinta di un’emozione che vuole trasfigurare la realtà quotidiana ed esprimere una delicata elegia, ci conferma che siamo dinanzi a una intelligenza sincera, a un animo sensibile che trova nel dipingere, anzi nel suo tenue colore, mai aspro, né secco, la sua felicità, anzi la sua verità.
Carlo Franza