Il modello nero da Géricault à Matisse. Al Musée d’Orsay di Parigi in mostra l’affascinante iconografia che identifica la “negritudine”.
Con un approccio veramente multidisciplinare, tra storia dell’arte e storia delle idee, questa mostra si concentra sulle problematiche estetiche, politiche, sociali e razziali, oltre che sull’immaginario sotteso alla rappresentazione delle figure nere nelle arti visive, dall’abolizione della schiavitù in Francia (1794) fino ai nostri giorni. Pur offrendo una prospettiva d’insieme, essa si sofferma in particolare su tre periodi cruciali: l’era dell’abolizione (1794-1848), il periodo della Nuova pittura fino alla scoperta, da parte di Matisse, del Rinascimento di Harlem e, infine, i primordi delle avanguardie novecentesche e le successive generazioni di artisti post-bellici e contemporanei. Organizzata in collaborazione con la Wallach Art dell’Université de Columbia, occupa la lunga sala centrale e le gallerie che ospitano dipinti, sculture, fotografie provenienti da tutto il mondo. Il percorso copre quasi due secoli e si articola in tre momenti. Il nero diventa un tema ricorrente nell’arte francese dall’epoca della rivoluzione quando viene abolita la schiavitù, ma il processo di acquisizione del nuovo immaginario continua lungo un percorso accidentato con editti e contro editti in date diverse, anche molto lontane tra di loro, in Francia e nelle colonie. Alexandre Dumas nel suo romanzo “Georges” del 1843 mette in luce i rischi di una cittadinanza recente, lui nipote di un mulatto, nato da un marchese francese e da una schiava di Haiti. E Théophile Gautier scrive per il teatro “La Nègresse et le Pacha per la señora Martinez”, una Malibran nera, che canta accompagnandosi con la chitarra. Non dimwentichiamo che la vita di Charles Baudelaire è stata sconvolta dalla passione per l’attrice mulatta Jeanne Duval che gli ispirava i «tableaux parisiens» di Les Fleurs du Mal: «La bizzarra deità, bruna come le notti, dal profumo mescolato di muschio e di avana»; tanto che nel 1862 Éduard Manet la ritrae seduta in poltrona avvolta dall’abito che l’avvolge come una nuvola bianca e mette in risalto i lunghi capelli corvini e gli occhi nerissimi.
La mostra al Musèe d’Orsay a Parigi aperta fino al 21 luglio, si interessa soprattutto alla questione del modello/modella nero e quindi al dialogo tra l’artista che dipinge, scolpisce, incide o fotografa e il modello/modella che posa. Nello specifico, è esplorato il modo in cui evolve la rappresentazione dei soggetti neri nelle principali opere di Théodore Géricault, Charles Cordier, Jean-Baptiste Carpeaux, Edouard Manet, Paul Cézanne e Henri Matisse, come pure nelle fotografie di Nadar e Carjat. La mostra che ha per titolo “Le Modèle Noire: de Géricault à Matisse”, visitabile fino al 21 luglio 2019, è di una rarità e di una bellezza storica veramente intensa, mi hanno sorpreso non poco nella visita i bellissimi ritratti in posa, dandomi subito l’idea che non fosse affatto una mostra di cassetta come tante ce ne sono in giro, ma razionalmente ideata, costruita, scelta, in quanto ha aperto le porte ad un soggetto, il nero, che non è mai stato nascosto né dissimulato. Basterebbe leggere il dipinto de l’Olympia di Manet, non c’è solo la modella sdraiata sul letto con il biancore della sua pelle, cosa che il visitatore nota subito, ma occorre cogliere che accanto a lei c’è una donna di colore, che le porge un magnifico bouquet di fiori mettendo subito in luce la propria “negritudine” in contrasto certo con quella esplosività rosea. Il contrasto tra il corpo nudo, bianchissimo, della cortigiana sdraiata sul divano e la figura della nera in piedi che le porge un mazzo di fiori non viene notato da nessuno. Ma la presenza della cameriera, che rimanda a un’immagine aristocratica e coloniale, può essere letto come la differenza sociale che esiste tra le due e rinforza il potere sovversivo del quadro.
Non è questa la prima mostra del genere, ve n’è stata un’altra prima, datata 2008 alla Nieuwe Kerk d’Amsterdam “Black Is Beautiful: Rubens to Dumas” e ancora quella rassegna fotografica organizzata alla National Portraits Gallery di Londra nel 2016, “Black Chronicles” – sta nel sottolineare l’affermazione di una iconografia ma anche di una identità Nera; certo partendo dalla Rivoluzione francese fino all’abolizione della schiavitù nel 1848, dalla rivolta di Santo Domingo nel 1791 alla necessità di portare avanti il concetto di “negritudine”. Si tratta di due secoli in cui lotte, dibattiti e tensioni si sono alternati sia nel campo politico sia in quello sociale, e trovando soprattutto un affondo significativo e vario nel versante artistico; la nascita della modernità democratica ha nutrito il mondo delle immagini e dell’arte in genere, sviluppando attraverso le più diverse iconografie e identità nere, legami importanti di continuità tra XVIII, XIX e XX secolo.
“Nessuna ambiguità: non si tratta di una mostra sulla rappresentazione dei Neri in quanto gruppo sociale”, sottolineano con forza i curatori dell’esposizione “ma un interesse per il modello, nel senso di soggetto osservato, rappresentato dall’artista, ed interprete di valori”.
Doppio scopo oltre che doppio senso: perché attraverso la messa in luce di un modello umano si illumina anche una disciplina, quella pittorica in quanto specchio della storia delle idee, delle sensibilità e delle raffigurazioni. Ogni artista attraverso il proprio sguardo racconta la storia della società, il cui cambiamento conduce a riflessioni su questioni fondamentali di cui la Rivoluzione della fine del XVIII secolo costituisce una cesura epocale; l’emergenza di assegnare un nuovo ritratto dell’uomo, sia esso bianco o nero, inteso come individuo emancipato e dunque indipendente, diventa formula essenziale dell’arte e della sua intrinseca democraticità.
Arte contro la schiavitù come la “Traite des Noir” di François-Auguste Biard che strabilia e sconvolge il pubblico del Salon del 1835 oppure “Chatiment des quatre piquets” dell’allievo di Ingres, Marcel Verdier, invece rifiutato al Salon del 1843; l’ardore romantico di Géricault al servizio dell’uguaglianza nel suo “Radeau de la Méduse”, in cui contrariamente agli schizzi preparatori, inserisce nella sua grande tela ulteriori figure di neri, oltre al marinaio colto di spalle che agita fortemente il lembo di stoffa simbolo della speranza collettiva.
La raccolta di opere, anche fotografiche, della mostra del Musée d’Orsay attraversa quasi due secoli d’arte, di letteratura e di spettacolo; illustra la società parigina che negli atelier di pittori e scultori e fotografi dell’800 accoglie il mondo di lavoratori neri per rappresentarne tratti ed esistenze e che nel ‘900 ospita artisti d’oltreoceano che si guadagnano un ampio spazio grazie alle loro iconiche personalità ed esibizioni: acrobati, clown, ballerine che segneranno la scena e la storia dello spettacolo. Ad iniziare dai disegni di Pablo Picasso, che nel 1908 presenta «Étude pour Nu debout», ove ritrae corpulente donne africane. Negli anni ’20 a Parigi sono di moda il jazz e gli artisti neri che si esibiscono sui palcoscenici e nei tabarin. Josephine Baker, a seno nudo, con un corto gonnellino, adorna di voluminose collane e con una coda di piume, è immortalata dal fotografo Walery. Nel 1930 poi un lungo viaggio porta Henri Matisse a Tahiti passando per gli Stati Uniti.; l’artista rimane affascinato dai grattacieli di New York e soprattutto dal jazz di Harlem dove si esibiscono musicisti come Louis Amstrong e Billie Holiday, tanto che di ritorno in Francia, ossessionato dalla musica nera e dai colori dei tropici, nelle sue ultime opere prende a modello donne meticce, come la caraibica Katherine Dunham, fondatrice dei Ballets Caraïbes e l’haitiana Carmen Lahens che posa per i disegni dei «Fleurs du mal», figure che assomigliano o contengono talvolta tracce di quell’aria da frenetico jazz, come nella «Dame à la robe blanche» del 1946, ritratta seduta su un divano viola a macchie nere, vestita d’un abito bianco a righe, con le larghe spalle scoperte, mentre giocherella con le perle della lunga collana bianca e blu. L’esposizione che si concluderà il 21 luglio 2019, si completa di una programmazione culturale aperta anche ad altre voci e tematiche, con il coinvolgimento di tutte le arti, al fine di sottolineare la vivacità espressiva della cultura nera, dal cinema alla fotografia, senza trascurare musica e letteratura. Artisti francesi e americani si alterneranno sulla scena: dal recital poetico musicale di Abd Al Malik, “Le jeune homme noir à l’épée” ispirato all’omonimo quadro dipinto nel 1850 da Puvis de Chavannes, alla presentazione del racconto “Un pas de chat sauvage” scritto da Marie Ndiaye e suggerito dalla fotografia di Nadar della celebre cantante cubana Maria Martinez. E per finire vi suggerisco di non perdere questa mostra, dedicategli il prossimo fine settimana.
Carlo Franza