IMG-20200119-WA0006Ha per titolo “Arturo Vermi. I ritmi del segno” la grandiosa mostra che ha inaugurato il Progetto “Mondi” al Circolo Esteri della FaIMG_2120rnesina a Roma, da me diretto. La mostra è stata aperta  alla presenza della vedova Anna Rizzo Vermi,  degli Ambasciatori Umberto Vattani e Gaetano Cortese e del Ministro Plenipotenziario Luigi Vignali. L’Ambasciatore Umberto Vattani, figura di spicco della Farnesina e ideatore della famosi82147264_2675726645873978_5800750952730329088_ossima Collezione Farnesina  ha tenuto un commovente discorso, precedendo una mia lectio magistralis sull’artista italiano che con Lucio Fontana e Piero Manzoni  è stato una dei pionieri dell’avanguardia del secondo novecento. Ebbene questa mi pare sia la prima grande mostra storica dopo la morte dell’artista, pur presente già internazionalmente in contesti di mostre più ampie IMG-20200119-WA0007come quella inaugurata a Londra sugli artisti che ruotavano attorno al movimento “Il  Cenobio”. L’esposizione vive con ben diciotto grandi opere, che ne chiariscono il lavoro artistico, dai “diari” agli inserti, alle “presenze”, ai monocromi, ecc.  Ecco chi è stato Arturo Vermi.   

La fase di partenza dei capitoli più significanti la poetica e l’estetica del lavoro di Arturo Vermi, inerenti  al segno e al gesto, l’abbiamo a partire dalla fatidica data del 12 dicembre 1962  quando al Cenobio di via San Carpoforo a Milano, nello storico quartiere di Brera,   vi fu la prima mostra di un gruppo di artisti, Arturo Vermi, Angelo Verga, Ettore Sordini, Ugo La Pietra, Agostino Ferrari, Raffaele Menster, con il supporto intellettuale e poetico di Alberto Lùcia. Ma come spesso avviene con i gruppi, la resistenza e gli accordi  durano poco, sicchè la terza mostra del movimento Il Cenobio, alla Saletta del Fiorino di Firenze  e  a L’Indice di Milano, a fine maggio 1963, IMG-20200119-WA0011IMG-20200119-WA0013 li trovò per l’ultima volta insieme.  Nel 1959  era iniziato  il graduale allontanamento di Sordini e Verga da Manzoni, mentre si definiva  l’interesse di Sordini per il segno: un segno esile e scarno, primario ma sinuoso; e per una cromia tenue e delicata, quasi impalpabile. Già nelle prime opere di Sordini traspare, infatti, una sensibilità matura attraverso un grafismo del tutto originale e personalissimo. Sono immagini segniche intimamente complesse che trovano respiro nel campo incontaminato, “libero” della superficie. Sordini “si avvale di una tecnica tutta grafica per costituire sulla tela, campita di un solo tono, tracce rade e sottili di colore che rimandano a memorie di immagini antropoidi filamentose”, così da arrivare “al segno già attraverso un processo di azzeramento di una matericità di origine esistenziale come conquista di libertà lirica”. Verso la fine degli anni ’50 Sordini attua un approfondimento del rapporto tra segnoIMG-20200119-WA0018-gesto- natura e l’opera acquista così una spazialità lirica maggiore accompagnata da un cromatismo tenue e delicato. Si può dire che Sordini “parte dal segno per arrivare alla pittura servendosi del colore in funzione spaziale e luminosa”.   Nel 1962 gIMG-20200119-WA0012li ex nucleari Sordini e Verga con gli ex-naturalisti Agostino Ferrari e Arturo Vermi, ma anche con Ugo La Pietra  e il poeta Alberto Lùcia detto vita  al  Gruppo del Cenobio, che fu un  tentativo estremo di opporsi sia alle tendenze nichilistiche e ipercritiche nei confronti della pittura e sia all’incipiente invasione della cultura artistica americana che con il successo della Pop Art segnava la fine del microclima milanese legato alle avanguardie europee. Ciò che i milanesi evocano, scrisse  Fulvio Abbate  “è in parte la tavola cuneiforme, la valenza magica di un scrittura epigrafica sommersa, ma anche il silenzio spaziale”, mantenendo “intatti i ferri del mestiere” del pittore. Gli artisti del Cenobio hanno rappresentato il terzo volto della reazione milanese all’ Informale parallelamente a quello nichilista-manzoniano e a quello costruttivo-oggettuale. Avevo scritto su Il Giornale  recensendo  la mostra londinese su Il Cenobio che “Sordini e Verga non seguono Manzoni nell’esplorazione dell’azzeramento proto-concettuale dell’opera d’arte. Invece, si sono mossi in una direzione che sarebbe stata successivamente descritta come semantica, mirando alla riduzione del dipinto in uno spazio di ricerca preliminare del segno”. Nel Cenobio si accentuò l’esigenza di togliere, di trasformare la pennellata in segno grafico tanto da anticipare gli esperimenti immediatamente seguenti di poesia visiva.

IMG-20200119-WA0019Occorre dire che Vermi è stato assolutamente pittore, perché ha vissuto la pittura in modo totale, fin dai primordi, ovvero  fin da quegIMG-20200119-WA0015li svolgimenti informali tra fine anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, per volgersi poi, elaborare e operare a mani larghe verso quella parentesi nuova che si aprì con l’arrivo di Klein a Milano, e non solo, ma anche con i movimenti come Azimuth e Zero, e dunque con il segno, lo spazio,  l’infinito, la monocromia, ecc.  Ecco perché  Vermi  prese a ragionare sia del segno che dello spazio. E se, come ha ben osservato  Flaminio Gualdoni, “il   suo riferimento prossimo è quello delle ricerche di La Pietra sul segnare come “minimo sperimentale simbolico”;  quello maggiore, autenticamente fondante, è il corso concettuale che ha condotto Lucio Fontana dai graffiti, sempre più avvertiti e intensivi in forma d’interrogazione, che trascorrono dagli “inchiostri” alle “carte”, sino ai “tagli”. Segni, sono, in concentrazione ultima: e gesti sospesi al limite zen della demateriazione definitiva, a ridosso dell’infinito”. Per questa sua ossessione del segno  e non solo, ed ancArturo_Vermi_ST_Dario_StoriaDellaChiesa_sd_tm_100x70he per il capitolo minimale degli “inserti”, delle “Presenze”  Arturo Vermi  è  un artista che a mio avviso dovrebbe primeggiare fra i primi dieci dell’arte italiana del novecento. E d’altronde parla la sua sintesi poetica, parla la sua intelligenza illuminata, parla la sua coerenza di pensiero, parla la sua visione dell’arte, la sua filosofia e la sua estetica. Arturo Vermi va ricordato per il suo linguaggio minimale, per il suo alfabeto lineare e cadenzato, artefice anch’egli di quel movimento dello spazialismo scandito dai segni e dai gesti, come la lingua di Fontana. Arturo Vermi argomentò  l’Annologio  dopo un lungo percorso artistico,  un misuratore di tempo “più umano, più in sintonia con i nostri tempi”, come lo definì l’artista;  era interessato  oltre  chè dello spazio come Fontana, soprattutto del tempo, della sua scansione, dei suoi marcatori, e ancor di più del tempo infinito, inesorabile,   del suo essere sempre uguale a se stesso. Dopo il 1964, “abbandonati i retaggi dell’informale, Vermi (scomparso a ottobre 1988) ritrova il suo segno: un segno inconfondibile, di straordinaria efficacia, in cui risiede l’essenza stessa della sua ricerca – scrive Simona Bartolena,  riferendosi alla scelta stilistica più iconica di Vermi – . Innanzitutto c’è la sua meravigliosa capacità di sintesi: una sintesi perfetta, assoluta, che sa includere in un unico tratto tutta la conoscenza. IMG-20200119-WA0014Nei segni essenziali, ridotti a un unico sicuro gesto, di Vermi si nasconde la memoria collettiva, essi sono luoghi nei quali la dimensione universale iArturoVermi_piattaforma_1979_tm_90x160x5cmncontra quella privata, la vita reale – quella sostanza fisica che Vermi non perderà mai di vista – si apre alla luce eterna dell’oro”. I “Diari” lasciano leggere lo spazio e il tempo, scanditi attraverso piccole linee nere, allineate, incolonnate,  in sequenza ritmica che segnano e insegnano  il loro quid, un orientamento, una stasi  e una via al tempo stesso, declinano un imprimere sulla pagina, prima mentale e poi materiale, la vita nel suo svolgersi quotidiano, nel suo dettato esistenziale, come prova di una misura nel suo dettato di spazio e di infinito. Ogni segno in sequenza è un monema, richiamando certo  una semplice unità linguistica,  quasi  richiamando il termine adottato nella terminologia linguistica francese da A. Martinet per indicare la più semplice unità linguistica dotata di significato, che può essere costituita da una parola, da un radicale, da un prefisso o un suffisso, da una desinenza. Tutto ciò non preclude e  non imprigiona Vermi in una scrittura segnica, perché quel segno per l’artista  è un vivere un’immagine nuova, un diverso pensare l’immagine se arriva a dire: “trovai la pagina bianca, lo spazio, ma non per riempirlo, bensì per spogliarlo e lasciarvi un segno orizzontale argenteo in mezzo a un blu, oppure due segni in mezzo a tutto il quadro vuoto e così quella serie la chiamai Paesaggi”. E’ oltremodo vero che il sodalizio con Lucio Fontana fruttò anche a Vermi lezioni preziose a partire  dalla serie di opere su Venezia e New York del 1961-1962, dove è lo spazio a divenire motore dei dipinti e la luce proprio attraverso l’uso dell’oro e dell’argento, cuore, anima e spirito delle sue riflessioni in crescendo. Da qui in poi, l’oro e l’argento  come  punto di forza monocroma, grazie all’avvio che dette in tal senso Yves Klein  a Milano negli Anni Cinquanta con il blu ( un dipinto comperato persino da Fontana) diventano un linguaggio colorato spaziale, un fare pittura assoluto, il linguaggio totale e sacrale dello spazio. Nel 1965, la frequentazione di Lucio Fontana lo conduce ad approfondire il concetto di spazio, che subito sviluppa nella propria opera: “Nel 1965-, ricorderà Vermi stesso- cominciai un lavoro che definirei di spazio. Per spazio, ora, intendo il vuoto, lo spazio al di fuori dalla terra, lo spazio cosmico”. Segno assoluto e colore-spazio assoluto; 20200116_203953(1)ma   il segno diventa lingua e linguaggio, cifra e alfabeto, costruzione e ritmo. Il ritmo del segno. Il segno, quel segno che nei diari è prima  minimale  diviene poi “Presenza” assoluta (Figure in un tempo-spazio, 1964), e si fa carico d’essere da una parte corpo  concettuale, dall’altra preziosa entità formale. Poi il percorso  si avvia negli anni Settanta a vivere lo spazio in modo scenografico con le “Piattaforme” ( vedi Piattaforma del 1976 e Piattaforma del 1979)  che sono presenze attive, sia come spazio e volume che come grado monocromo di colore oro. La poetica o che si voglia le diverse poetiche di cui è intriso il suo percorso lo portano a una volta anche esistenziale, che coincide proprio con la fine degli anni Settanta. E con l’inizio di questa nuova stagione esistenziale, scrive il 19 novembre 1976: “Dichiaro iniziata l’era del disimpegno; poiché oggi sono diverso da ieri, devo modificare o negare ciò che ho affermato ieri. Senza questa libertà non c’è evoluzione, progresso, scienza, felicità. Quindi basta impegni con: il padre, la madre, i figli, la patria, il dogma gli ideali, la parola data. Facciamo soltanto ciò che ci fa felici”.  A questo perriodo sono da ricondurre “L’Azzurro” (1975) rivista che esce in due numeri, e a detta di Gualdoni “secondo la miglior tradizione della neoavaguardia” e il “Manifesto del disimpegno”(1 978). E’ certo che il precedente percorso engagé non è rinnegato, ma il manifesto certifica una sua maggior richiesta di libertà, di assoluta ricerca in un certo senso anche anarchica, e in un clima, quello tra gli anni Settanta e Ottanta, ormai fin troppo lontano  e mutato. Nel 1980 progettava  e incideva “La Sequoia” una sorta di tavola delle leggi che l’anno successivo, nel corso di un viaggio in Egitto con Antonio Paradiso e Nanda Vigo, restituiva  a Mosé sul monte Sinai.  Ancora  nel 1980 il suo lavoro s’incentrava sulla suite “I Colloqui”, che presagiscono la realizzazione della sua ultima opera: “L’Annologio”. L’uomo-artista  Arturo Vermi ormai si allontanava dalla radicalizzazione del segno e dello spazio, per avviarsi a nuove stagioni tanto che  nel maggio 1983 scriveva  di voler fare “solo cose belle” e non più “analizzare gli errori e gli orrori degli uomini né tramandarne la memoria”. Si sono fatti nomi, sono state citate tendenze e poetiche per  spiegare la pittura di Arturo Vermi,  e in ognuna delle esemplificazioni il motivo di fondo sul quale i vari passaggi si andavano organizzando (anche tecnicamente) sembrava accerchiato, sempre più avvicinato, ma per oscillazioni, quasi che la più segreta natura di una ricerca tutto sommato coerente non si lasciasse affrontare per definizione diretta. È il momento della chiarificazione non solo tematica direi, che debba essere individuato attorno al tempo, e al titolo delle “genealogie segniche e spazialiste”. È qui, credo, che  Vermi  abbia liberato  con sempre maggiore consapevolezza motivi interiori e metodologia compositiva, facendo coincidere intenzioni e risoluzioni. E nel finale degli anni Ottanta, nel separare la campitura dal segno, nel rinunciare alla forte propensione lirica ma non scartando nemmeno l’interferenza dell’inquietudine, in altre parole accettando come necessaria (in termini dialettici) la messa in discussione di una eventuale nostalgia estetizzante attraverso la persistenza di un malessere diffuso non ancora evidenziato ma pressante,   Vermi  per una sottile e tuttavia difficilmente negabile tensione narrativa (articolazione di un “discorso” tutto interno, esposizione di una tesi, quella delle “genealogie spazialiste e segniche ”, processo di proliferazione, di continua nascita, di ciclicità anche rituale sottolineata dal fare creativo),  lascia vivere esempi di una pittura che si offre come pagina  di altissima  leggibilità  e insieme come metodo di lettura e di ricerca,  ossessiva, intellettuale e,  a mio avviso, anche mistica. Essenziale il suo  capitolo del segno e del gesto, cui Arturo Vermi si apparentò, anzi, meglio generò, come uno degli alberi più significativi dell’estetica del novecento.

Carlo Franza

 

 

 

 

 

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