Il Museo Madre  a Napoli “presidio culturale, museo comunità, solidale e sostenibile” come lo definisce Laura Valente presidente della Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, presenta la stagione 2020/2021 realizzata con fondi POC.  “Più che un magazzino per oggetti, oggi un museo ha la potenzialità per essere un centro di sperimentazione aperto, da cui attingere idee, strumenti e strategie” spiega la neo direttrice artistica, la francese Kathryn Weir. “Alessandro Mendini: piccole fantasie quotidiane”, visitabile fino al  1 febbraio 2021, è la prima mostra in un museo pubblico italiano dopo la sua scomparsa, avvenuta il 18 febbraio 2019, e la prima, nella storia del Madre, dedicata a una delle più importanti figure nel panorama internazionale del design e dell’architettura del secondo dopoguerra. Realizzata grazie a una collaborazione stretta con lo Studio Alessandro Mendini e curata da Gianluca Riccio e Arianna Rosica, la mostra indaga la multidisciplinarietà del lavoro di Mendini e il legame tra la sua poetica e la cultura artistica d’avanguardia, con un focus dedicato al suo rapporto con Napoli, città che ha ospitato alcuni suoi interventi di arte pubblica. Tre i principali progetti: l’ideazione delle fermate della metropolitana di Salvator Rosa e Materdei e la riprogettazione di alcuni elementi chiave nell’ambito dei lavori di rinnovo della Villa Comunale.

La poltrona “maggiorata” e tutto il resto. Al Madre di Napoli le ricerche di Alessandro Mendini, il meno etichettabile dei designer italiani, in onore del milanese che più portò lo scompiglio nel “bel design” dei Castiglioni, Magistretti, Mari. Il Madre celebra tutte le tappe fondamentali della carriera del piu poliedrico, ironico e scapigliato dei designer e architetti italiani, morto un anno fa. Noto soprattutto per alcuni manufatti – ebbene sì – iconici, è condannato all’etichetta di papà della Proust, la poltrona Luigi XVI puntinata – la “maggiorata fisica delle poltrone italiane” secondo Ugo Gregoretti, in un archeologico programma Rai dedicato al design.

Mendini è stato invece un po’ il fuoristrada  del design italiano: tutti ricordano i suoi riff più consumati e di successo, sotto cui però giaceva un enorme e sommerso lavorio di ricerca che costeggia e interseca i maggiori movimenti artistici del Dopoguerra. “Da questo ‘faticoso vagare’, all’inizio del nuovo decennio, che lo porta dall’approfondimento dell’Arte Povera, degli oggetti banali e del kitsch e dal confronto con le esperienze di Sottsass, Pesce, Archizoom e Superstudio, Mendini estrae all’inizio degli anni Settanta quelle che saranno le linee guida del proprio linguaggio architettonico e del proprio metodo progettuale: aperto all’impiego di materiali ed elementi naturali – la paglia, la terra, il fuoco – e al recupero di vocazioni comportamentistiche per un’architettura contingente e progressiva”, dice uno dei due curatori, Gianluca Riccio. Nel 1970, non ancora quarantenne, Mendini assume la direzione della storica rivista Casabella. Da qualche anno un gruppo di giovani architetti, artisti e intellettuali, fra cui Gianni Pettena e Remo Buti, accanto ai gruppi Archizoom e Superstudio e ai collettivi Ufo e Zzigurat, stanno organizzando una piccola rivoluzione

culturale mossa sotto le insegne di multidisciplinarietà, collettivizzazione, ironia e dissacrazione, ricorda la presidente del Madre, Laura Valente. È nato il design radicale e nasce “Global Tools”, una specie di controscuola di architettura molto hippie a cui partecipano Mendini e Casabella insieme a Superstudio, Ettore Sottsass, Ugo La Pietra e altri.

Erano gli anni ’70  quelli detti Anni di piombo dove sparare era all’ordine del giorno   e si progettavano petrolchimici, Mendini e gli altri riagganciavano per un attimo l’Italia alla contemporaneità, ai movimenti americani che poi produrranno Internet e la Silicon Valley (ecologismo, ritorno alla natura, scardinamento dei modelli di lavoro precostituiti, nuove connessioni nella società). Pur se poi non ci fu  nessuna Silicon Valley, rimasero  i petrolchimici, ma il percorso di Mendini  è rimasto  unico nella sua assoluta libertà (disegnerà anche un disco dei Matia Bazar, nello scompiglio dei colleghi). “Sono laureato in Architettura, ma, se dovessi descrivermi, non mi descriverei come un architetto, forse come un artista, un creativo. Le etichette non mi piacciono”, diceva di sé, ricorda l’altra curatrice, Arianna Rosica. “Io non sono un architetto, sono un drago”, dice invece a Stefano Boeri, che ricorda come in un disegno Alessandro Mendini si raccontava e si rappresentava appunto come creatura sputafuoco. Con il corpo da architetto, la testa da designer, il petto da manager, la coda da poeta e via dicendo”. Mendini stava benissimo a Napoli: città che ha rappresentato un grande teatro per l’architetto-designer, un luogo dove mettere in scena i suoi “mobili infiniti” o “monumenti continui”, come le fermate Salvator Rosa e Materdei della metropolitana napoletana (che, in effetti, è la cosa più somigliante a un’architettura radicale, nel bene e nel male, che sia mai stata fatta in Italia).

Carlo Franza

 

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