C’è un Sud cantato da poeti italiani, intellettuali del sud, che vive una sorta di travasamento; specie quel sud pugliese  e salentino che poeti hanno cantato affidandosi ad archetipi e mitologie. Penso ad Albino  Pierro, a Girolamo Comi, a Rocco Scotellaro,  Ercole Ugo D’Andrea, Rina Durante, Vittore Fiore, Vittorio Pagano,  Salvatore Toma, Antonio Verri, Nicola G. De Donno, e altri. Il bianco calcinato delle case, la luce abbacinante, la piazza del paese, le chiese barocche, i detti salentini, i paesi  e le campagne di ulivi millenari, tutto muove a sollecitare  e  a far vivere  nella poesia di Bodini (1914- 1970) i richiami sacrali e rituali, quella  fenomenologia di una antropologia del luogo. Bodini moriva 50 anni fa. Le fonti di questi richiami, che interessano tutta la prima fase del poeta pugliese che ha dedicato a Lecce e al territorio salentino pagine di pregnante valore estetico e artistico,  sono un vocabolario intriso nella cultura popolare. “Piazzetta bianca, monaca nera /che suona un campanello e non lo sente”; e ancora “In piazza, accoccolati/ sulle ginocchie del Municipio,/ stanno i disoccupati/a prender l’oro del sole”. La piazza è sempre stata nel Sud, luogo di ritrovo specie per gli anziani e per chi cerca lavoro, la piazza  in realtà è sempre stata luogo dei disoccupati, che attendono sulla gradinata o della Chiesa Matrice del paese o del Municipio qualcosa che possa accadere in attesa di poter cambiare il proprio destino, quel qualcosa che  illumini un poco la loro giornata;  la piazza è un luogo che ha  un’anima fortemente popolare. Solo il sole, che inonda e abbrustolisce  la piazza,  può dare  ai senza lavoro l’oro dei suoi raggi.  Bodini moriva 50 anni fa, quando il Sud aveva, dopo l’emigrazione, conosciuto appena quel minimo di benessere senza cancellare le tradizioni.  Il mito, il sacro e il rito sono nella fisionomia dei luoghi. La poesia  con Bodini è canto e il canto è il malinconico racconto di un linguaggio cadenzato, lento ma non monotono che fa danzare i ricordi e le immagini, quasi ricordando il ballo dei tarantolati. Tra i ricordi e le immagini c’è l’appartenenza ad una terra, secca, amara, sofferente, dura. Ma  l’appartenenza si fa sentimento, un  sentimento che si fa ricerca del tempo perduto(recherce du temp perdu), che attraversa il linguaggio-canto si fa ritorno alle radici. Ciò è talmente forte, che è  proprio l’appartenenza alle radici che fa della poesia di Bodini un paesaggio  speculare di valori che vivono dentro la parola, l’accento, il ritmo, il sogno: “Lingua di fuoco pallido e sapore/ di mela era sul viso della piazza/la  luna”.

Bodini attinge per la sua poetica dalle fonti di una cultura popolare in cui  la religiosità si fa primaria necessità, quella religiosità che va  dalle processioni alle feste patronali, i santi patroni da Sant’Oronzo a Santa Marina, da San Trifone a San Biagio, da San Rocco a San Vito, da San Donato a  Santa Domenica (i santi  lasciano vivere una religiosità tutta popolare e arcaica in cui sono presenti i simboli e i segni  provenienti da lontani archetipi, tutto ciò appartiene a  una cultura mitica e mito come arcaicità e se si vuole come eterno ritorno in termini vichiani) e sono ben presenti i personaggi-contadini che vivono questa religiosità quasi fosse una loro  identità antropologica, ma anche poetica perché nei versi di Bodini trasuda la magia della parola, quel linguaggio e quei loro detti che  si fanno  magia-grazia-simbolo.

Bodini racconta storia salentine e si serve del linguaggio popolare. Il linguaggio si fa recita ma la recita è musicale; gli stessi temi che campeggiano nella poesia di Bodini sono temi  si innervano  sul tessuto delle manifestazioni che la cultura della tradizione tende a far  recuperare. Il sud, il paese, la piazza, i vicoli: sono tutti luoghi della cultura popolare perché sono luoghi che descrivono il sud.   Memorabili questi versi:“Tu non conosci il Sud, le case di calce/da cui uscivamo al sole come numeri/dalla faccia di un dado” (da La luna dei Borboni); e la descrizione, la rappresentazione – la stessa che utilizzava Rocco Scotellaro per descrivere i luoghi dei contadini del Sud- vive di una sua particolarissima  fisionomia, in quanto poggia sul  riappropriarsi della terra e delle radici. Bodini incalza i ricordi, la memoria , quel sentimento del ritorno è un sentimento che esplora sì i luoghi mitici della cultura popolare, ma grazie  al  senso-parola-linguaggio si ritorna a quei luoghi come luoghi unici: “ Quando tornai al mio paese nel Sud,/dove ogni cosa, ogni attimo del passato/ somiglia a quei terribili polsi dei morti/ che ogni volta rispuntano dalle zolle/ e stancano le pale eternamente implacati,/ compresi allora perché ti dovevo perdere:/ qui s’era fatto il mio volto, lontano da te,/ e il tuo, in altri paesi a cui non posso pensare./”

Bodini,  il suo Salento lo ha vissuto fisicamente, solo così il poeta ha potuto cogliere corpo e anima, e persino  gli odori, i segni, le giornate, le albe, le notti,  i sapori, i dolori, le ansie e le attese. A voler essere più precisi ne ha colto persino ironie e allegorie. Bodini dopo aver digerito tutto ciò, ha voluto che questo divenisse  materiale poetico, poesia impareggiabile. Poi la realtà diventa simbolo, e  la poesia di Bodini parla per mezzo dei simboli. Il paese è un simbolo e tutto ciò che vive in esso è simbolo. Il paese è avvolto in un’aria senza tempo, il poeta ne coglie passato, presente e futuro. L’infanzia di Bodini è una infanzia che punta sul cuore del tempo. I viaggi di Bodini sono i viaggi alla ricerca di archetipi, di miti, di richiami ancestrali. Nella poesia di Bodini sono i miti  che si fanno protagonisti, e i miti si fanno poesia,  perché nella cultura popolare  i luoghi, le voci, gli abitanti,  sono scena corale. Bodini con  la sua poesia ( quella della sua prima stagione poetica: La luna dei Borboni del 1952, Dopo la luna del 1956, La luna dei Borboni e altre poesie del 1962; la seconda stagione comincia con Metamor del 1967) fa aggallare  sulla scena un percorso ove  il sentimento popolare richiama viaggi nella magia, nel sogno, nella storia di un sud profondissimo, in cui  traspaiono certo i simboli, ma anche il sangue, il sudore   e il lavoro di intere generazioni. Ne presento  un esempio: “Una chitarra al centro d’una piazza:/una piccola piazza/ posta  fra  i muri bianchi come una foglia,/come un sorriso dimenticato”. Ecco cosa  osservò l’amico e collega Donato Valli dell’Università di Lecce che esplorando la poesia bodiniana  vi intravide  “l’andalusismo salentino”, quasi a memoria di certi scritti sulla poesia spagnola di Oreste Macrì. C’e una sorta di comparazione tra l’andalusismo salentino e quello spagnolo (quello cantato da Lorca e non solo), un andalusismo che si nutre di spiritualità, di  barocco, di impressionismo tutto meridionale, di favola e di  fantasia, di mistero, di  memoria, di simboli,  e persino della presenza dei santi e di Cristo, di  metafore  che fanno altilenare  la poesia fra realtà e mistero, basti guardare il verso dedicato a San Giuseppe da Copertino, certo un po’ surreale: “Un monaco rissoso vola tra gli alberi”. Bodini affonda la sua meditazione poetica  nello spirito popolare: “tutto il paese vuole far sapere/che vive ancora/nell’ombra in cui rientra decapitato/ un carrettiere dalle cave. Il buio,/com’è lungo nel Sud! Tardi s’accendono/ le luci delle case e dei fantali”. Sono versi da “Foglie di tabacco”in La luna dei Borboni e altre poesie. “Le donne portavano/ fichi e uva passa/ in fazzoletti dai colori sbiaditi/ per il troppo lavarli”(da Lecce- Bari). “Sulla piazza di Torchiarolo/ dalle case rosse e blu/le anime sante del purgatorio/ invocano Maria e Gesù./I ragazzi bussano ai vestri,/ i vestri bussano  all’ombra,/l’ombra chiede al setaccio/chi sarà il suo fidanzato./Cade un tramonto ammantato/d’un sarape verde  e viola” (idem).. Uno dei simboli cardine è stata la luna,    per la cultura contadina motore vitale di lavoro nella sua quotidianità. Il simbolo della luna vive dentro la poetica del sud, come  in  molte poesie bodiniane: “La luna dei Borboni/ col suo viso sfregiato tornerà/ sulle case di tufo, sui balconi/”. Nella provincia  salentina si muovono i simboli e le ironie, quella surrealtà  di cui Bodini è andato sempre fiero. La provincia diventa l’identità delle radici. La provincia diventa serbatoio di una cultura popolare che si fa poesia,  parola,  canto, tra  assonanze e consonanze,  con  immagini che sono magia e mistero, così come gli archetipi paiono certo  base delle radici dello spirito popolare. Grandi archetipi, luoghi unici, memorabili,  sono i luoghi dell’infanzia e della giovinezza. Sono i luoghi che hanno lasciato la realtà per restare traccia  mitica. Bodini muove così  il paesaggio simbolico, è così che la poesia si fa mito.  Il mito si liquefa nella memoria: “Quando tornai al mio paese nel Sud,/io mi sentivo morire”/. E ancora: “Ma lasciamo un momento questa città./Andiamo nel sonno andiamo a vedere che succede”. Cosa voglia dire  andare nel sonno è  presto detto,  è scavare nella preistoria della coscienza.  Bodini riscopre la storia, la storia della sua terra, le sue radici,  e quel  tempo che le avvolge: “Siamo in un’età/di grandi riepiloghi”/.Versi umani, troppo umani, ma anche religiosi, intrisi di una ironia tutta meridionale, ogni parola di questi versi contiene la storia tra il passato e il futuro. Il viaggio di Bodini dentro questa poesia è stato il viaggio di tanti intellettuali  che hanno vegliato il tempo prima di tornare alle radici e ritrovare “La luna dei Borboni”  

Carlo Franza

 

 

 

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