Adriano Pasquali incornicia la storia e la quotidianità con foto d’epoca. Un archivio fotografico che propone un capitolo di arte concettuale.
In quella che è una particolare galleria d’arte che ha nome “Piscina Comunale” -qui abbiamo nel tempo già visto bellissime mostre- della Copisteria La Copia di Via Campiglio 13 angolo Via Grossich a Milano, in zona Città Studi, nel quartiere universitario, il proprietario Adriano Pasquali, che è anche singolare artista, tutti i giorni alle prese con fotocopie e tesi, adesso ha sulle pareti allineato tutta una serie di suoi lavori. Una mostra in piena regola che fa di Adriano Pasquali artista di impegno, ricerca e storia. Proprio così, Pasquali con questo capitolo è un artista attento alla storia catturata dai ricordi, dalle fotografie usurate dal tempo e dagli anni, dalle persone fermate per un attimo, dai volti fermati per un attimo, così che l’attimo che si è riusciti a fermare è stato un ricordo da poter guardare per sempre. Le sue mani si sono tuffate in questo archivio fotografico da vintage e hanno scelto fotografie -quelle in mostra- su cui poi l’artista è intervenuto. E proprio sull’evidenza delle foto prescelte con profonda cura, Adriano Paquali vi ha lavorato sopra con macchie, lacerti di colore, sbianchettature, cuciture, innervandovi sopra un’eccezionale potenza visiva senza togliervi la perdita di legami, di ricordi, senza lasciar disperdere quei momenti di quotidianità che le hanno motivate e legate a determinate emozioni o stati d’animo. Il fatto di aver dato fondo a un’arte che non vive di digitale, puntando invece e intaccando la fotografia classica, è perché Pasquali ha mirato a fondere storia ed arte, tradizioni e ricorrenze, cultura e epoche. E se le fotografie pur attraversate da una luce rispetto al momento che le ha occasionate, oggi vengono “ritoccate” pittoricamente o scansionate da collage, si fanno ritrovare ancora preziose, ancora vissute, sfogliate, ritrovate, ricordate, tramandate. Eccola la grande capacità dell’artista contemporaneo, qual’è Adriano Pasquali, di vivere il proprio tempo senza aver accantonato il passato, la storia, la quotidianità. Ma è stata proprio la fotografia e il suo uso e riuso, a calcare la scena di questa mostra, a farsi naturale testimonianza, a mantenere viva la memoria, sia della civiltà contadina che di quella che è stata ed è una vita borghese. Le opere di questo nuovo capitolo artistico messo in piedi da Pasquali vivono una loro “concettualità” che trovo non solo nobilmente ideale, ma fortemente innervate nel quadro contemporaneo e se la fotografia narra della vita che ci ha circondato, altrettanto è in grado di raccontare di noi stessi e delle passate generazioni. Sono state recuperate fotografie scattate a età diverse della vita e in epoche generazionali anche lontane, soprattutto della prima metà del Novecento e ancor prima, l’artista vi ha lasciato sopra ognuna di esse un suo segno, un imprimatur, per poi disporle l’una accanto all’altra. Con un’unica occhiata possiamo prendere possesso di tutta l’esistenza di intere generazioni italiane, come davanti ad uno specchio fornito di memoria, una linea continua nel tempo che dal passato porta al presente, riproponendo particolari episodi della vita e delle trasformazioni fisiche attraversate dal corpo. Pasquali è stato come affascinato da queste fotografie di un diario rispolverato, un diario suo e di altri sul quale ha lavorato innestandovi folgorazioni di macchie e colori. Certo che fotografare è equivalso a catturare quella immagine, che non potrà più riprodursi, e farla nostra per sempre. Dallo sguardo che l’ha percepita al possesso fisico della sua riproduzione. Dall’evanescenza della memoria di quella percezione, alla possibilità di consegnare, con la fotografia scattata, il ricordo all’eterno; l’illusione non solo di aver arrestato la fuga del tempo, ma di aver potuto effettuare un viaggio a ritroso nella memoria. Perché, in un certo senso, la foto cristallizza il ricordo, restituisce esattamente quello che ha visto, anche quando anni sono passati trascinandosi con sé luoghi e persone. Roland Barthes ricorda nel suo “ La camera chiara” come, in una sera di novembre, riordinando vecchie fotografie dopo la recente scomparsa della madre, trovando una sua vecchia inquadratura a cinque anni di età: “Osservai la bambina e finalmente ritrovai mia madre. La luminosità del suo viso, la posizione ingenua delle sue mani…tutto ciò aveva trasformato la posa fotografica in quel paradosso insostenibile che lei aveva sostenuto per tutta la vita: l’affermazione di una dolcezza”.
Ecco una mostra senza precedenti, dove la poetica Adriano Pasquali l’ha trovata sfogliando e riproponendo fotografie d’altri tempi, che non vuol dire collezionare solo i ricordi, che è pure un privilegio, ma porgere la storia, i racconti di una vita.
Carlo Franza