Da non trascurare assolutamente, per gli esperti e gli studiosi, la grande mostra “La regione delle Madri. I

paesaggi di Osvaldo  Licini”, promossa dalla Regione Marche e organizzata dal Comune di Monte Vidon  Corrado in collaborazione con il Centro Studi Osvaldo Licini. L’esposizione, la prima interamente dedicata a questo tema tanto caro all’artista, è in corso  nel suo paese natale  sino al 10 gennaio 2021.  La mostra, curata da Daniela Simoni, da tredici  anni  alla guida del Centro Studi Licini, è ospitata nel Centro Studi  e nella Casa Museo  di Monte Vidon Corrado, per l’artista luogo della creazione e  indaga il rapporto tra Licini e il paesaggio marchigiano, le vedute francesi e quelle svedesi, le fonti pittoriche  e quelle letterarie,il paesaggio descritto nelle lettere e quello disegnato o dipinto, la sua interiorizzazione e le proiezioni  cosmiche degli ultimi  anni.  Costituisce inoltre  l’occasione per riflettere  sulla cronologia  delle opere degli anni Venti  e per pubblicare documenti inediti importanti a comprendere il passaggio alla fase del figurale fantastico. 90 oli e 30 disegni, di cui 33 del periodo figurale, 9 dipinti astratti degli anni Trenta e i rimanenti degli anni Quaranta e Cinquanta, provenienti da importanti collezioni pubbliche italiane e straniere.  A Monte Vidon Corrado, piccolo ma prezioso borgo in provincia di Fermo ‒ proprio nel fermano il paesino è chiamato “lu muntidù” ‒ tra la sempre affascinante Casa Museo e il Centro Studi Osvaldo Licini, è possibile guardare e studiare (in alcuni casi per la prima volta dal vivo, vista anche la difficile reperibilità), in circa centoventi opere tra dipinti e disegni, l’atmosfera paesaggistica che Osvaldo Licini (Monte Vidon Corrado, 1894-1958) – il “solitario” Licini, l’artista “appartato in un paesetto nelle Marche” si legge nella biografia inviata alla mostra nazionale Premio del Fiorino (Firenze, 1950) – è riuscito a trasferire e trasporre e trascendere nel suo lungo, mai appagato  lavoro: “Adesso guardiamo”, lui e sua moglie Nanny Hellstrom sposata nel 1925 a Parigi, “dalle finestre crescere la primavera e i cambiamenti rapidi del cielo e dei verdi e ci divertiamo come a teatro”, suggerisce l’artista in una lettera del 5 aprile 1932 all’amico Felice Catalini, fratello di quell’Ermenegildo Catalini che tanto si era impegnato con passione  comunista, sulla “questione meridionale” di Giustino Fortunato ( Rionero in Vulture 4 settembre 1848- Napoli 23 luglio 1932), politico e storico italiano,  fra i più importanti rappresentanti del  Meridionalismo.

Ma addentriamoci nella pittura di Osvaldo Licini. Basta sporgersi da una di quelle finestre ventose della Casa Museo per percepire quanto di quel paesaggio  si ritrova tra le opere realizzate negli anni marchigiani e quella realtà volutamente appiattita, tirata a fondo, portata a una dimensione antivolumetrica (perseguita anche da Matisse), spinta oltre i bordi del vero (“Lavoro dal vero. Quasi sempre”), in un’area ideale dove cielo e terra si confondono per farsi silenzio cristallino e geometrico (una “geometria piana”, più precisamente), apparizione  chiara  e diafana, ricordo di qualcosa che ritorna, “con predominio di fantasia e immaginazione, cioè poesia”, come eterno e dolce. La sua produzione non è abbondante e, soprattutto, non vistosa, generalmente i quadri sono piccoli, spesso piccolissimi; ma a chi ben guardasse, appariva subito l’intensità poetica che in essa si rivela, un mondo di immagini sgorganti da un fresco genuino fervore di vita spirituale”, annota Palma Bucarelli in un articolo pubblicato su La Sera di Roma il 18 giugno 1958, dove riporta le sue considerazioni sugli italiani premiati alla XXIX edizione della Biennale di Venezia.

Con “La regione delle madri. I paesaggi di Osvaldo Licini”, un nuovo e avvincente capitolo di studi si apre su questo artista straordinario che ha sentito l’esigenza di stringere attorno ai colori il sentimento del tempo poetico e di avere come compagni di strada, accanto ai mentori – si fa per dire- rintracciati nella storia dell’arte d’altri secoli (“Giotto, Masaccio, Piero della Francesca, Giorgione, Tiziano, Tintoretto, Greco, Rembrandt, Goya, Courbet, Corot, Manet, gl’Impressionisti, Cézanne, Utrillo, Modigliani, Renoir, Fattori”), una serie di altri compagni di strada, i poeti appunto: e con i poeti le parole, le distanze infinite e la “profondissima quiete” dove l’uomo nel pensier si finge per creare un personale e passionale teatro della mente, della memoria. Questo nuovo appuntamento con l’opera di Osvaldo Licini – qualche tempo fa la stessa Simoni diceva che l’artista dei cinque Racconti di Bruto del 1913 (“cento volte tese la mano per donare il suo cuore, cento volte gli uomini si ritrassero con diffidenza”, si legge nell’affascinante e breve novella intitolata Il cuore è in mano) di tanto in tanto saliva sul tetto di casa per ululare alla luna – è ricco di ebollizzioni  creative, finanche di sorprendenti parachesi o annominazioni visive che mostrano una ricerca libera e non chiassosa, uno scavo nella sintassi della pittura, intesa come “l’arte dei colori e dei segni. I segni esprimono la forza, la volontà, l’idea. I colori la magia. Abbiamo detto segni e non sogni”, ha puntualizzato lo stesso Licini nella sua Natura di un discorso pubblicata sul Corriere Padano di Ferrara il 9 ottobre 1937.

Tra i paesaggi in mostra (Marina del 1921, Paesaggio marchigiano del 1925, Colline marchigiane del 1927, Capriccio n. 2 del 1932, Bilico del 1933, Personaggio del 1945, Angelo su fondo rosso del 1950, Omaggio a Cavalcanti 1954, Amalassunta Luna del 1946, ne sono alcuni) si rileva il passaggio da un “realismo” geometrico e interiore a un primitivismo fantastico a un astrattismo siderale a un antropomorfismo che produce “personpaesaggi”, per giungere via via, tra rigore e capriccio, a risoluzioni enigmatiche cosmiche fluttuanti sinuose originarie (“Il suo orizzonte è più largo, il suo movimento più libero, il suo scopo è d’intercettare con preziosa dialettica il razionalismo geometrico e l’irrazionalismo fantastico di Klee e Miró”, rileva ancora Palma Bucarelli nel 1973) dove l’infinito si palesa per essere preso per mano.

I paesaggi marchigiani di Licini  sono luoghi, un po’ come lo sono stati Giverny per Monet o Aix-en-Provence per Cèzanne o Arles per Van Gogh. E’ così che quel paesaggio marchigiano è  divenuto mito, paesaggio del cuore. L’arte di Licini si concentra sul paesaggio marchigiano fra terra e cielo, come è chiarito  anche dall’artista in una lettera del febbraio del 1941 al teosofo e filosofo Franco Ciliberti, fondatore  del movimento Valori Primordiali: “ Ti scrivo dalle viscere  della terra la “regione delle madri” forse, dove sono disceso  per conservare incolumi alcuni valori immateriali, non convertibili, certo, che appartengono al dominio dello spirito umano. In questa profondità ancora verde, la landa dell’originario forse, io cercherò di recuperare il segreto primitivo del nostro significato nel cosmo”.

Carlo Franza

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