A quarant’anni dalla sua morte, Fondazione Pirelli, MMspa e la sua Centrale dell’Acqua, Fondazione Sinisgalli, Fondazione ISEC, ricordano il “poeta-ingegnere” Leonardo Sinisgalli con un ciclo di 3 incontri dal titolo “Un furore matematico: la lezione di Leonardo Sinisgalli”. Ciascun evento è dedicato a un diverso aspetto della vita di questo “Leonardo del Novecento”.

Venerdì 29 gennaio 2021, diretta sui canali on line della Centrale dell’Acqua di Milano a partire dalle 17. “Sinisgalli e Milano” con Antonio Calabrò (Fondazione Pirelli, MuseImpresa) e Giuseppe Lupo (Università Cattolica, Milano). I rapporti tra Milano e Sinisgalli iniziano quando arriva a Milano nel 1932 dopo la laurea. Si dedica alla poesia, alla pubblicistica ma soprattutto inizia il lungo sodalizio che lo legherà al mondo della grande industria e alla composita schiera di intellettuali raccolti attorno a Edoardo Persico. Nel 1937 è assunto dalla Società del Linoleum del Gruppo Pirelli, breve e decisiva a cui seguirà, dopo un anno, l’incarico a direttore dell’Ufficio tecnico di pubblicità di Milano dell’Olivetti. Alla Linoleum conosce Giuseppe Luraghi, che ritroverà, dopo la guerra, sempre in Pirelli e con il quale darà vita a due delle più importanti riviste aziendali italiane: “Pirelli. Rivista di infromazione e di tecnica” (1948) e “Civiltà delle Macchine” (1953).

Venerdì 5 febbraio 2021, diretta sui canali on line della Centrale dell’Acqua di Milano a partire dalle 17. “Sinisgalli e Civiltà delle Macchine” Con Gian Italo Bischi (Università di Urbino) e Giorgio Bigatti  (Università Bocconi, Milano). Nel 1950 Sinisgalli dà alle stampe “Furor mathematicus”, che raccoglie gli scritti di matematica, di geometria, di architettura, di arte e artigianato, di tecnica e storia della scienza. È il prodromo di “Civiltà delle Macchine”, la rivista della Finmeccanica che inventò nel 1953 e diresse per cinque anni (32 numeri). La rivista era espressione di una cultura politecnica che ambiva a far dialogare scienza, letteratura e arti nel quadro di un umanesimo industriale che aveva avuto un lontano antecedente nel “Politecnico” di Carlo Cattaneo.

Venerdì 12 febbraio 2021, diretta sui canali on line della Centrale dell’Acqua di Milano a partire dalle 17. “Sinisgalli poeta” Con Clelia Martignoni (Università di Pavia) e Luca Stefanelli (Università di Pavia). La “doppia personalità” di Sinisgalli ingegnere/poeta emerge sin dalle prime pubblicazioni degli anni 30: una contaminazione che diviene completa negli anni 50. Secondo Sinisgalli la poesia è un insieme di “numeri reali” e di “numeri immaginari”. Esiste sempre qualcosa di non comprensibile, di non immediatamente scientifico, c’è sempre spazio all’immaginazione, ma c’è anche molto che appartiene al reale. Fare poesia significa riflettere sull’esistenza e sulla capacità di riuscire a comprendere la scientificità della realtà, attraverso la passione poetica. Che è sempre una passione contenuta, un filtro molto oggettivo.

Mi è caro ricordare il poeta Leonardo Sinisgalli ( Montemurro 1908 – Roma 1981)  in occasione dei suoi quarant’anni dalla morte, qui su Il Giornale. Ho scritto in questi giorni un altro saggio  dal titolo “ Il poeta   Leonardo Sinisgalli e Milano. Ricordo a quarant’anni dalla morte”  in uscita su “Folium”- Roma febbraio 2021. Poeta italiano di rilievo, appartenente agli ermetici della seconda generazione, misurato  nell’antieloquenza che già  Contini e De Robertis  avevano rintracciato come formula tipica del poeta lucano. E’ in “18 poesie” che attraverso l’autoritratto ( “La luce ha la tua statura/ e regge il gesto/ precisa, anche la pietra/ dà il petto al sole./ La tua voce questa mattina/ ci cresce nelle ossa, / in questo sangue/ che si ordina come le foglie./ E il giorno prende in terra/ misura dal tuo passo.”), preludio  di un esercizio   memoriale che sfocia  fino alla fanciullezza (“Perduta alle spalle  la fanciullezza/si fa più lontana, ombra/ cieca nella polvere.”), e addirittura si misura su  un realismo che affonda nei suoi giochi d’infanzia ( “I fanciulli battono le monete rosse/ contro il muro…”) o  nell’epigramma e nella gnomica (“Ora  e sempre più viva/ sarà la smania  di far notte in me solo/  e cercare scampo e riposo/  nella mia storia  più remota/./ Ogni sera mi vado incontro a ritroso”).  E’ visibile  chiaramente in “18 poesie” del 1936 la svolta memoriale, quell’elegia del tempo lontano,  che  Oreste Macrì  ha chiamato “recupero  delle cose pure della terra, della famiglia e dell’aura nativa”, non nascondendo quell’ermetismo rasente  che catturava motivi remoti, decorativi,    nei quali anche  altri poeti del periodo, come Cardarelli,  si aggrappavano per sfuggire a quel  momento storico. Quelle storie, quei ricordi, quelle memorie non si sono mai avviate a divenire miti, non si certificarono trasfigurazioni,  perché tutto si avviò verso il disimpegno, quella scrittura poetica che trasudava  di riecheggi mallarmeani ( La pazienza è forse rischiosa/ che talvolta  si spegne un fiore/ nella notte e il fradicio odore/ ti eccita curiosa./ Ma susciti  dentro la stanza/  l’aria di tanta vacanza/ amica pungente e pia./ Così cara è la tua molestia/ che stasera con me ti fa festa/ la mia effimera poesia”). Col trascorrere degli anni ecco l’influenza montaliana, specie quella stoica, dove le parole sono suono ma maggiormente si fanno gioco epigrammatico ( “Questa traccia esitante senza fine/ è la tua sorte; se passi  il confine/ la morte può cogliere nel segno”). Rimane  la descrizione di cose e oggetti, di immagini care,  ma attraverso  un tono meditativo, oscuro e inquietante che circonda sempre il  “tu” autobiografico.  E se De Robertis aspettava la nascita dei miti da questo incedere poetico, ciò non solo non avviene, Sinisgalli si porta  con il suo controllo algebrico, di conta della vita,  di scorporo del linguaggio poetico, a furoreggiare in immagini e tecniche di altri, come d’altronde aveva avvertito già Contini  sottolineando quella sorta di “nudità”  utilizzata già da Umberto Saba e poi Sandro Penna (“ Rosei del rosa  dolce delle case/ d’Autunno i muratori sopra i tetti”)  o anche da  tracce cardarelline  come in “Elegia Romana ( “ Chi conosce le tue estati, Roma/ sa di aver toccato la luce/ fino all’osso…”).  Nella raccolta di  “Nuovi Campi Elisi”  scorre la prosa, la descrizione,  l’elegia strapaesana,  e l’autobiografismo si attorciglia in modo verboso, mostrando un album epigrammatico e una intellettualistica ironia, che incornicia la gnomica  e la sedimenta in epigramma (“Sono un uccello prigioniero/ in una gabbia d’oro. La selva/ variopèinta è senza colore  per me./ L’anima  s’è trovata la sua stanza/ intorno a te./”). Metafore e simboli   vivono sia in “Quadernetto della polvere” che nella raccolta “La Vigna vecchia” (“Quale seme, qual polline, qual germe/ nasconde il tuo nocciolo/ un diadema, una rotula, un verme/ quel che si accoglie e quel che si rifiuta/ l’uovo guasto  o la macchina inutile?/”).  Quella che era la biblioteca degli oggetti e delle immagini  della sua infanzia, della sua fanciullezza, il suo paese lucano Montemurro nel Potentino, allenta via via la presa visiva e verbale; e se prima questi dati  trovavano presenza  in una poesia carica di  espansione dei sentimenti, adesso quegli stessi elementi  sono quasi senz’anima e senza storia, asfittici, privi di reali contatti umani e di vita; tutto si avviava nel pieno dell’ermetismo, in quel magma fatto proprio da Ungaretti che aveva metafisicizzato la sua poesia, trovando accadimenti nel suo “dolore” pur romantico e individualistico. Sinisgalli si muove ora  nelle metafore che gli sussurra la polvere, l’elegia della mosca, l’ironia di ciò gli sovviene dall’infanzia, c’è quasi un distacco gelido che si avverte  nel presentare ogni oggetto come un oggetto barocco e pertanto solo strumento ai fini poetici; quelli che erano stati  moti del cuore  legati  ai luoghi lucani e alla fanciullezza  ora si smorzano in un discorso arido (“Si spegneranno al sole le piccole fiamme/ degli zingari maniscalchi,/ le incudini abbandonate sui prati/ e i sontuosi scacciamosche/ per le groppe degli asini decrepiti.”/).  E’ in questo lungo percorso poetico la poesia di Sinisgalli si arena in questa fatalistica avventura del vivere, in questa desertificazione dell’anima, in questa concreta insensibilità, per aver interrotto ogni vero motivo direzionale del vivere e dell’agire umano (“Da te,consumati tutti i segni,/ sciolti tutti i nodi, rotti i patti,/ distrutte le scorie,/ rinasceremo alla stasi eterna, / lastre senza gemiti, specchi senza memoria./). E’ il tempo dell’aridità, di ogni traccia poematica non più evidente, è il tempo delle sperimentazioni, quasi inaugurasse Sinisgalli una sorta di poesia informale, senza connotati figurali, un clima  disumanizzato (“Appena visibile incolore impalpabile,/  senza apici, senza figura,/ innocua come la serpe di cui si conosce il rifugio,/ più elusiva dell’ombra, pungente più della luce, dove ti posi fai intima ogni cosa./ Così silente scorri  ma non trabocchi, / ti accumuli ma non dirocchi./”). Sinisgalli  è giunto a una scarnificazione del mondo, a una riduzione della contaminazione sentimentale e soggettiva, per giungere a una descrizione oggettiva della vita e delle cose  senza più una naturale accensione logica (“ Ho schiacciato la miccia sotto i tacchi,/ ho franto i fiori tra le dita./ E non mi accosto più/ ai vecchi affetti,alle insegne abbattute./ Io allargo intorno il vuoto./”) .  E mentre gli ermetici dopo la loro produzione poetica iperletteraria e aristocratica si avviavano versi un tuffo nell’umano, Sinisgalli accendeva – per dirla con  Gianni Pozzi-  “una   astratta metafisica…una antichissima ipotesi platonica  ripercuote e rinfrange nelle sfere letterariamente celesti, il più quotidiano  dei fenomeni naturali (“ E’ chiaro il bel mattino/  come una macchia di vino,/ un bimbo suona  la cornetta,/ un soldato passa a cavallo./ D’improvviso  con fracasso/ si apre una crepa/ lassù e qua in basso/  una melagrana si spacca./”).  Preziose paiono  la scaltrezza mallarmeana, il distacco e la lontananaza  e chiaramente  evidenti le tracce e le formule dell’ermetismo, ovvero l’ironia di quanto osservato, la lucidità nel cogliere  luoghi, cose e figure, in uno stato di estraneità (“…una impercettibile/ frana nell’ordine delle cose.”).  Tutto pare adesso come  visto e letto oltre lo specchio, oltre il pudore dell’anima,  con emozioni quasi stranianti  e senza sentimento, un mondo senza più storia  e significati umani (“La luce cola sulla terra/ per un’intercapedine, una fessura,/ la mosca ridente se ne vola/ nell’antimondo non raggiunta/  dal sole./”).  L’antimondo è ormai divenuto contenuto, metafisica,  tutto è divenuto oggettività di  resti colti da uno sguardo lucido;  essi – oggetti, colori, figure e altro- navigano avventurosamente  in uno spazio limbale, neutro, astratto. Ora  con “L’età della luna” del 1956-1962,  e  “Il  passero e il lebbroso” del 1962-1970,  la  poetica sinisgalliana non più cosmica  e non più simbolica, ma  certificata metaforica e intrisa di un rituale  ancora antico e  tenacemente personale nell’invenzione e nella riflessione, ha trovato nella sperimentazione  un faro apicale, unendo albero e radice, foglie e frutto, terra e cielo.

Carlo Franza

 

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