Ancora qualche giorno per non perdersi la mostra straordinaria “Furio Cavallini ovvero il Crazy Horse di Bianciardi” presso il Polo Culturale le Clarisse di Grosseto, fino al 13 febbraio 2022. Promossa dall’Associazione Culturale Giuseppe e Gina Flangini, in collaborazione con il Comune di Grosseto, la Fondazione Grosseto Cultura, il Polo culturale le Clarisse, la Fondazione Luciano Bianciardi e la Famiglia Cavallini, la mostra è il primo evento culturale con cui il Comune di Grosseto dà ufficialmente inizio alle celebrazioni dei cento anni dalla nascita di Luciano Bianciardi (1922-2022). Curata da Elisa Favilli, storica dell’arte, e Fabio Canessa, critico letterario e cinematografico, la mostra è un intreccio narrativo basato sull’amicizia ventennale (1954-1971) intercorsa tra il pittore Furio Cavallini (Piombino 1929 – Cecina 2012) e lo scrittore Luciano Bianciardi (Grosseto 1922 – Milano 1971).

23 opere (quadri e disegni) realizzate da Cavallini dialogheranno con 12 brani tratti dagli scritti realizzati da Bianciardi. Testi quest’ultimi che avranno il compito di svelare ad ogni lettore-visitatore sia lo sguardo critico con cui lo scrittore grossetano raccontava il suo personale punto di vista sull’arte, sia la complicità su cui Cavallini e Bianciardi seppero edificare la propria amicizia, grazie alla presentazione in mostra delle lettere che Bianciardi inviò all’amico piombinese, oggi conservate negli archivi della Fondazione Luciano Bianciardi e della Famiglia Cavallini.

Essenziale, la mostra si pone l’obiettivo di mettere in luce la dimensione umana dei due personaggi, lasciando ad ogni visitatore il compito di catturare la bellezza con cui i due autori seppero, nel rispettivo medium, pittorico e scrittorio, interpretare il proprio tempo, denunciando la disumanità con cui il benessere effimero del boom economico rendeva l’uomo schiavo del lusso, privandolo di tutti quei valori che solo un decennio prima avevano liberato l’Italia dal nazifascismo.

All’interno del catalogo (Pacini Editore) il tempo della mostra è ampliato nella dimensione critica-scientifica per offrire ad ogni visitatore la possibilità di conoscere la figura artistica di Furio Cavallini, la sua vita, i personaggi che intrecciarono con lui i suoi passi e la sua evoluzione espressiva, Bianciardi e il suo personale rapporto con l’arte, i suoi gusti e le sue opinioni sul cinema, la musica, la pittura con i suoi stili, le proprie correnti e i suoi attori. Tutto senza dimenticare il punto focale della mostra ovvero l’amicizia sincera che i due amici seppero tessere.  

Ripropongo qui il testo esplicativo mostra: “Ci si conobbe nell’autunno del 1954, a Milano, dalle parti di Brera, dentro un caffeuccio che poi è diventato alla moda, e anzi l’hanno anche abbellito” sono le parole con cui Luciano Bianciardi racconta il suo incontro con il pittore piombinese Furio Cavallini nei locali del Bar Jamaica. Il suo carattere “schietto” e la sua origine maremmana lo colpiscono diventando il pretesto per creare un’amicizia che durerà per circa un ventennio. Nella Milano dissennata del “Miracolo” Cavallini arriva con l’intento di approfondire il suo lessico pittorico, superare la dinamica del disegno toscano e abbracciare nella sua concezione primordiale la materia e la sua dimensione informale. Si iscrive al corso di pittura dell’Accademia di Brera, mentre Bianciardi nella città lombarda amplia la sua attività di scrittore collaborando con Nuovi Argomenti e l’Unità, e firmando un contratto con la nuova casa editrice diretta da Giangiacomo Feltrinelli. L’identità toscana li accomuna, l’indole ribelle e anticonformista verso una società sempre più distratta da qualsiasi impegno sociale, perché ammaliata dai benefici effimeri del boom economico, li porta, nei rispettivi linguaggi espressivi, a puntare il dito contro la fragilità umana. Ironico e sagace, esule in una Milano dinamica e produttiva, Bianciardi ricerca nell’anima urbana la sua natura provinciale, raccontando i suoi personaggi e le sue contraddizioni, mentre Cavallini cattura i suoi tratti salienti attraverso i ritratti e gli schizzi rubati tra i vicoli e le realtà industriali. Nel 1956 Cavallini torna in Toscana. Viene ricoverato nel sanatorio di Firenze per gravi problemi respiratori. Le ore estenuanti passate nella fabbrica di Motomeccanica di Milano, per sbarcare il lunario e pagare i debiti, lo fanno ammalare gravemente di tubercolosi. Si chiude temporaneamente la sua vita milanese, mentre il capoluogo toscano lo consacra pittore e maestro d’arte. Dopo una breve parentesi piombinese, Cavallini torna a lavorare a Firenze dove vince una cattedra di disegno, mentre a Milano, nel 1962, Bianciardi con il romanzo “La vita agra” ottiene un successo clamoroso di pubblico e critica. Tra le pagine del romanzo, lo scrittore grossetano dedica un piccolo cammeo all’artista piombinese, mentre per la presentazione di una mostra personale a Forte dei Marmi (1966) dichiara apertamente la complicità con cui, anche fuori dal contesto milanese, i due restano amici: “ ogni tanto mi compare per casa all’improvviso, qua fuor di Milano dove anch’io sono scappato, e parla, racconta, discute, legge, e appena gli capita tra le mani un pezzo di carta e qualcosa che lasci il segno, attacca a dipingere”. Amicizia che Bianciardi ribadisce in una missiva del 1970, dove dichiara a Cavallini di essere “fra i pochi a non compiangere l’uno sulla spalla dell’altro gli anni passati. No, Furio mi chiede cosa ho scritto, io gli chiedo cosa ha dipinto. Fra noi due, sono queste le sole cose che contano. Si capisce, insieme al resto, alle persone che ci vogliono bene. Con quelle, e con il nostro mestieraccio, non si lesina mai”. Nel 1971 Bianciardi muore, mentre Cavallini torna a Milano. Cambia lo scenario, la città del boom economico cede il passo a una Milano contestatrice, scossa dalle lotte politiche. Cavallini rivolge la sua ricerca nel silenzio degli interni, offrendo agli oggetti il compito di raccontare l’assenza morale di un uomo moderno sempre più solo nel suo pessimismo esistenziale.

Furio Cavallini nasce a Piombino nel 1929. Con lo scoppio della guerra, nel 1941, si trasferisce a Riparbella, città natale del padre. Qui prende forma la sua personalità, il suo sguardo critico e la sua educazione sessuale. Lavora come tagliaboschi al fianco del padre, Giuseppe Cavallini, anarchico militante. Legge tantissimo, trovando in Cassola e il suo immobilismo la sua libertà di raccontare attraverso l’oggetto le emozioni e le sue contaminazioni umane. Dopo il 1945, torna a Piombino dove entra come operaio alla Magona. Segue le lezioni di nudo all’Accademia di belle arti di Firenze. Nel 1952 lascia la città portuale per diplomarsi in pittura. A Firenze conosce e frequenta il gruppo Pittori delle Dune (Gino Gonni, Emilio Ambron, Renzo Baraldi, Silvano Bozzolini, Beppe Lieto, Ormanno Fieraboschi e Hubert Queloz). Approfondisce lo studio del disegno, ricercando nella pittura umanistica e rinascimentale del capoluogo toscano la sua identità espressiva. Grazie alla vendita di alcuni suoi disegni nelle gallerie d’arte di Milano sceglie di abbandonare Firenze per la città lombarda. Prosegue i suoi studi all’Accademia d’arte di Brera. Qui frequenta i corsi di Aldo Carpi il leader del gruppo i Pittori di Brera e del movimento esistenzialista. L’informale, il realismo, l’atomismo di Baj, lo spazialismo di Fontana, entrano nel suo lessico ma senza sconvolgere la sua identità toscana. Nel 1954 conosce Bianciardi al bar Jamaica  in Brera a Milano. Il caffè degli artisti, degli oppositori, spazio laico dei bohemiens, isola felice dei perdigiorno, ma soprattutto crocevia di incontri dove imbandire veri e propri dibattiti. È la critica feroce verso la frenesia dei tempi moderni, contro il concetto effimero e ipocrita con cui lo Stato grida al “miracolo economico italiano”, a catalizzare le coscienze dei frequentatori del bar. Qui entra in contatto con il gruppo del “Realismo Esistenziale” in particolare con Giuseppe Guerreschi e Tino Vaglieri. Il loro è un realismo espressionista svincolato dalla partecipazione attiva alla politica e privo di ideologismi, punto di vista quest’ultimo che Cavallini rafforza nella sua cura verso il dettaglio, offrendo all’oggetto, nella sua essenza materica la possibilità di ampliare in modo dei significati che in esso trovano compimento. A Milano Cavallini amplia il cerchio delle sue amicizie, conosce Oreste del Buono e Camillo Pennati. Mal nutrito e pieno di debiti, lascia la pittura e grazie all’ingegner Conconi entra a lavorare alla Motomeccanica di Milano. Il contatto diretto con i prodotti chimici e i ritmi di lavoro estenuanti lo fanno ammalare di tubercolosi. Nel 1956, pagati tutti i debiti, viene ricoverato nel sanatorio di Firenze. Torna a dipingere e la città toscana lo premia con mostre personali, riconoscendogli la sua identità di pittore contemporaneo. Problemi familiari lo riportano a Piombino, torna a lavorare in fabbrica, luogo dove conosce Deanna Moretti, la donna che diverrà sua moglie e musa nelle sue rappresentazioni di nudo. Dal loro matrimonio nascono Giovanni e Giulia. Nel 1966 lascia Piombino. Ottiene una cattedra come assistente di laboratorio al liceo artistico, lavoro che gli permetterà di dedicarsi integralmente alla pittura. Nel 1973 vince una cattedra di pittura al liceo artistico di Busto Arsizio, torna con tutta la famiglia a Milano. Nel 1977 abbandona l’insegnamento per dedicarsi integralmente alla pittura. Gli interni, l’oggetto e la sua presenza quotidiana diventano, insieme alle giacche, i suoi soggetti prediletti Nel 1987 orfano della propria vena creativa, Cavallini si trasferisce, grazie a Ugo Guarino, per alcuni mesi nell’ex manicomio di Trieste. Qui condivide il suo tempo con gli ex ospiti della struttura sanitaria, rimasti lì sospesi tra una vita malata e una vita normale. Sono anni di ricerca, di fervore creativo, dove spinge al massimo il suo bisogno di dare una forma morale alle sue giacche, mentre scandaglia le profondità di quell’umanità distorta e alienata con cui condivide la sua quotidianità. Qui realizza un numero consistente di ritratti, dipinti ma soprattutto disegni su cui torna negli anni successivi a ricercare la perfezione assoluta. Dipinge e poi con la carta di giornale toglie la superficie in eccesso per ritornare successivamente a definire la forma di ogni singola pennellata. La ricerca della forma pura dei primi anni adesso cede il passo alla dirompenza del gesto, il particolare diventa allora parte di una dimensione astratta con cui raccontare e catturare la bellezza dell’infinito. Nel 1997 torna con la moglie a Riparbella. Ripercorre la sua infanzia, ricerca i paesaggi condivisi con il padre, lasciando al paesaggio un posto d’onore nella sua visione artistica. Nel 2004 si trasferisce a Cecina, città dove muore nel 2012.

Carlo Franza

 

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