Intervista a Victor Rafael Veronesi sullo scempio della Cappella Ortelli a Cernobbio opera di Giuseppe Terragni
E’ di questi giorni la notizia dell’Archivio Terragni relativa allo scempio sull’opera di Giuseppe Terragni, ovvero le pesanti alterazioni subite dalla Cappella Ortelli, opera di Terragni nel Cimitero di Cernobbio. Per sapere cosa è accaduto abbiamo intervistato un giovane studioso, Victor Rafael Veronesi. Eccone l’intervista.
D. Dottor Veronesi ci può dire cosa è successo di eclatante, la settimana scorsa, a Cernobbio?
R. L’architetto Attilio Terragni, nipote del celebre nome del razionalismo italiano Giuseppe Terragni (1904 – 1943) e responsabile del suo archivio, ha pubblicato dei post su Facebook in cui lamentava l’ennesimo ” sfregio” arrecato alla cappella-edicola realizzata tra il 1929 ed il 1930 dal celebre familiare per un maggiorente e benefattore locale, tale Domenico Ortelli, sepolto nel cimitero di Cernobbio. L’edificio, dopo esser stato assegnato dagli eredi Ortelli nel 1973 al Comune e ceduto alla famiglia Pozzi Simeoni, avrebbe già subito delle alterazioni (come, ad esempio la sostituzione dei pregiati marmi neri posti inizialmente alle pareti con dei più economici graniti, così come la messa in opera di alcuni vetri nel lucernario in luogo delle lastre in onice, o la modifica di alcune intestazioni), tutti interventi considerevoli, ma non così rilevanti come gli ultimi, riconducibili invece ad anni più recenti. Sarebbero infatti spariti da poco i cancelli originali vetrati -simili a quelli delle cappelle Pirovano e Stecchini di Como- ed una grande croce in metallo posizionata all’interno, sul fianco sinistro della strutture, due pezzi rimossi non si sa come e quando, ma soprattutto con quali autorizzazioni e criteri.
D.Perché queste alterazioni sarebbero rilevanti e dovrebbero sconcertare?
R. La cappella, essendo uno dei circa 85 progetti portati avanti da una delle principali firme dell’architettura del ‘ 900 italiano, dell’ autore della celebre “casa del Fascio” di Como e dell’edificio “Novocomum” (nonché soggetto di una famosa monografia del 1980 di Bruno Zevi), avrebbe dovuto avere una considerazione differente. Pare assurdo, ma in molti vanno a Como per studiare e vedere delle opere di Terragni e, qualora avessero cercato quella struttura nel cimitero di Cernobbio, a fatica l’avrebbero riconosciuta dalle fotografie e dal progetto originario, visto che ora mostra, ad esempio, anche una mensola-altare portafiori sotto la “Resurrezione” dello scultore Vitaliano Marchini, altra firma importante che collaborò al progetto mentre faceva da assistente a Wildt, prima di succedergli a Brera. Non si sarebbero dovute e potute apportare così tante manomissioni in quell’edificio senza nemmeno averle registrate in qualche modo. Non si sa nemmeno dove siano finite le parti asportate, gettate magari in qualche discarica, mentre erano dei pezzi di design dotati di un valore economico ed artistico. Quella era una cappella che come minimo sarebbe dovuta essere notificata, o trattata con più rispetto.
D. Che cosa intende?
R. Che le soprintendenze avrebbero dovuto riconoscere l’interesse culturale per l’architettura cimiteriale (una condizione che non risulterebbe dal database nazionale ” vincoli in rete”) anche per far sì che non subisse ulteriori modifiche, o per evitare che qualcuno potesse mai asportare in futuro, liberamente, il fregio di Marchini che non si sa se e in quale modo sia protetto. Magari le soprintendenze non conoscono nemmeno la struttura censita dal database del Maarc -museo dell’astrattismo e razionalismo comasco – e non da quello regionale “lombardiabeniculturali”, ma che avendo più di 50 anni e di un autore non più vivente (ai sensi della legislazione vigente, il ddl 42 del 2004), avrebbe potuto e dovuto entrare di buon grado a far parte del nostro patrimonio tutelato dallo Stato. Va detto, a discolpa delle soprintendenze, che queste stesse hanno poco personale e che quello competente per il territorio comasco opera di norma da un ufficio a Milano e poi sulla rispettiva area. Non riescono ad avere il polso di tutto. Di certo, ad essere informati delle modifiche sulla struttura devono essere stati in passato quegli uffici comunali a Cernobbio che hanno dato l’autorizzazione ai lavori, senza però riuscire a porre dei divieti che non erano di loro competenza.
D. Che cosa si potrà fare, o si farà in seguito?
R. È stata comunicata la situazione sia alle funzionarie ed ai funzionari competenti del Comune, così come alle soprintendenze locali ed al sottosegretario del MiC, il Prof. Vittorio Sgarbi, perché tutti i tre possano interfacciarsi e interessarsi dell’ accaduto, valutando – se non già fatto prima – di procedere finalmente ad apporre qualche vincolo per tutelare l’edificio, o rendersi conto di quanti e quali cambiamenti siano stati approntati alla struttura e quando. Di certo, sarà difficile ritrovare e recuperare i cancelli e la croce rimossa, come anche ripristinare la condizione originaria della cappella che è quel che si auspicherebbe -sentito oggi telefonicamente- l’ architetto Attilio Terragni e forse tutti gli appassionati d’arte.
D. E’ questo un episodio isolato? Ci sono altre opere di Terragni che hanno avuto simili problemi, o di altre firme del ‘900?
R. Che mi risulti, non ci sono altre opere di Terragni che abbiano avuto un simile trattamento in Como e che rischino qualcosa. Chi ne sa di più è chi custodisce la memoria di Terragni, il suo archivio. Di sicuro, per quel che sta accadendo negli ultimi anni a Milano, pare che forse non ci sia una sufficiente attenzione per il contemporaneo, per l’architettura del ‘900 in Lombardia. Non tutto può essere conservato, ma per le architetture delle “firme” ci vorrebbe una maggiore considerazione. A Milano è stata da poco demolita la palazzina della Rizzoli di Portaluppi per una riqualificazione. Nel 2020, sempre per una riqualificazione, è stata abbattuta la facciata disegnata dai compassi d’oro Magnaghi e Terzaghi della ex Bica 2-Montedison di via San Giovanni sul Muro al 9, una fronte giudicata, come tutta la palazzina, nel 1958, “interessante” da Gio Ponti. Rispetto a questa prospettiva, alla necessità di una maggiore tutela, sarebbe d’accordo lo stesso architetto Luca Zevi, informato solo settimana scorsa della modifica alla cappella studiata da suo padre assieme agli altri edifici dell’architetto comasco.
D. Si può dire che le architetture del ‘900 siano a rischio?
R. Gran parte delle architetture erette in quel secolo di frenesia edilizia non ci sono più ed altre scompariranno. Se non ci sarà la capacità da in lato di registrare puntualmente tutto il patrimonio edilizio realizzato in quel secolo e di valutarlo a fondo si perderanno dei tesori. Sono spesso considerate anche di poco conto esempi più e meno importanti di archeologia industriale come lo era la Borletti di Piazza Irnerio a Milano (demolita dal 2018 al 2020), o solo qualche giorno fa la cosiddetta “villa di Badoglio”, la residenza di via Crema 24 che aveva ospitato la manifattura di Pietro Badoglio e quella di Casimiro Martinucci che reclamizzava nel 1927 gli articoli di moda li prodotti sulla rivista per signore più famosa di allora, Liedel. Non dovrebbe esser sempre così. Un altro capitolo bisognerebbe dedicarlo alle architetture cimiteriali che a Milano, perlomeno, per quanto riguarda il Monumentale, sono studiate e catalogate con cura da anni e fatte oggetto anche di particolari e seguitissimi itinerari turistici frequentati da molti stranieri. Diversa è la situazione lombarda.
D. Perché?
R. Manca un vero e proprio censimento delle architetture e delle opere d’arte dei cimiteri lombardi. Un banale esempio lo si può avere a Magenta dove, a pochi passi della tomba Ponti, c’è una architettura di Carlo Maciachini, ovvero del progettista del Monumentale. Questa chiesetta in stile neogotico è ignorata dalla critica e dalle soprintendenze e reca all’interno anche un bassorilievo di Gaetano Monti detto il Bestiale (uno scultore neoclassico che collaborò alla decorazione dell’arco della pace di Milano). Ecco questa cappella, come tante altre, è come se non esistesse, al pari del patrimonio di memorie storico-artistiche di cui si fanno portatrici.
Carlo Franza