Arnaldo Pomodoro e il grande teatro delle civiltà al Palazzo della Civiltà Italiana di Roma
Arnaldo Pomodoro (Morciano di Romagna, 1926) è uno dei più importanti scultori contemporanei al mondo. Questa mostra presenta una selezione delle opere dell’artista dalla fine del 1950 ai giorni nostri, insieme a materiali documentari disponibili per la consultazione pubblica che evocano lo studio e l’archivio di Pomodoro. Concepito per lo spazio al Palazzo della Civiltà Italiana a Roma, la mostra -aperta fino al 1 ottobre 2023- è a tutti gli effetti un grande “teatro” autobiografico, reale e mentale, storico e immaginativo. Quattro sculture ai quattro angoli esterni del palazzo offrono un assaggio di ciò che verrà. Una volta all’interno, la mostra è allestita come un’opera in due atti più intermezzo, corrispondenti alle due gallerie principali che si specchiano a vicenda, più un passaggio di collegamento retrostante. Nel suo complesso, “Il Grande Teatro delle Civiltà” esplora la pratica di Pomodoro attraverso la pervasiva interdipendenza delle arti visive e performative/drammaturgiche, combinando le opere finali finite e il modo in cui apparivano nelle loro dimensioni di concezione progettuale. Concretezza e utopia, segno e archetipo, materia e visione, opere tridimensionali e documenti bidimensionali, condivisione nello spazio pubblico e ricerca personale condotta in studio e in archivio, tutto questo si combina per formare un continuum. Le opere di Pomodoro fanno costantemente riferimento a una moltitudine di “civiltà”, tracce evanescenti di civiltà arcaiche, antiche e moderne, o che sono forse solo un prodotto della fantasia. Le forme, i segni e i materiali indefinibili risultanti appartengono sia all’archeologia che alla futurologia, rielaborando le nostre conoscenze e immagini, la nostra esperienza di tempo e spazio, storia e mito, per non parlare delle nostre relazioni come esseri umani con altre specie viventi e la natura. Gli oltre settant’anni di ricerca di Arnaldo Pomodoro sono raccontati in questo vasto teatro.
Le Forme del Mito. La trama de Il Grande Teatro delle Civiltà inizia con i quattro angoli esterni dell’edificio del Palazzo della Civiltà Italiana, dove i quattro Forme del mito (1983) sono installati: Il Potere (Agamennone); L’ambizione (Clitennestra); La macchina (Egisto); e La profezia (Cassandra)) , sculture originariamente realizzate come dispositivi scenici per il ciclo teatrale dell’artista Emilio Isgrò ispirato all’Orestea del drammaturgo greco Eschilo, rappresentato in una piazza in rovina nella città siciliana di Gibellina, distrutta dal terremoto.
In piedi oggi come fondali scenici tra il Palazzo della Civiltà Italiana, il paesaggio naturale e la comunità urbana circostante, le quattro sculture fungono ancora una volta da “cassa di risonanza della tradizione, monumenti nella stessa piazza in cui si ripete la tragedia”. Le strutture primarie dei solidi geometrici a cui le sculture fanno riferimento (piramide, cono, parallelepipedo) sono rimodellate in un groviglio di segni che rimandano all’interferenza umana nella natura, e alla storia raccontata da Eschilo. Riprogettando il Palazzo della Civiltà Italiana, proprio l’architettura come archetipo alterabile, le quattro Forme del mito risignificano l’edificio, trasformando il cosiddetto “Colosseo Quadrato” – simbolo del modernismo e del razionalismo italiano, per non parlare dell’architettura EUR dell’epoca fascista – in un’opera aperta, che, come una rimessa in scena, può essere reinterpretata, spogliata della sua interpretazione tagliata e asciutta e definita.
Le opere-costume. L’azione teatrale con cui la mostra prende il via all’esterno del Palazzo della Civiltà Italiana è immediatamente seguita da una presentazione speculare nel vestibolo d’ingresso, due opere-costume che l’artista ha originariamente creato per due spettacoli teatrali: Costume di Didone (per Didone, regina di Cartagine di Christopher Marlowe, messa in scena e rappresentata sulle rovine di Gibellina il 6 settembre 1986), e Costume di Creonte (per l’Edipo Re di Igor Stravinskij, messo in scena e rappresentato in Piazza Jacopo della Quercia a Siena il 19 agosto 1988). Realizzate con materiali scultorei ed effimeri come rafia e tessuto, le due sculture-costume richiamano sia l’attuale funzione dell’edificio come sede internazionale della ricerca creativa e della conservazione archivistica di uno dei migliori marchi di moda contemporanea al mondo, sia antiche iconografie e tecniche tradizionali provenienti da opere d’arte africane e asiatiche che rievocano il racconto delle leggendarie storie di Didone e Creonte.
Le Battaglie e il Movimento in piena aria e nel profondo. Concepito come due atti di un’opera teatrale con un interludio centrale, il percorso espositivo si divide binariamente in due gallerie specchiate, più una stanza sul retro di collegamento. Le due gallerie principali sono allestite simmetricamente con due opere ambientali di grandi dimensioni anche se di colore contrastante, una nera (Le Battaglie, 1995), l’altro bianco (Movimento in piena aria e nel profondo, 1996-1997). Caratterizzato da forme taglienti, spigolose e spigolose (denti, frecce, lance…) e da una varietà di materiali (grovigli di corde, cunei, bulloni…), Le battaglie evoca un forte senso di dinamismo e confusione, creato dallo scontro e dall’incontro di tutti i suoi elementi in movimento. Come matrice, Le battaglie evoca uno dei capolavori del Rinascimento italiano e degli studi prospettici, Paolo Uccello trittico, La battaglia di San Romano. Pomodoro, tuttavia, innerva la sua memoria con la tensione della propria astrazione espressiva e materiale, formata nel 1950 in un incontro tra i ricordi dell’espressionismo del 20 ° secolo, la pratica dell’Art Informel di quel periodo e la sua intuizione in una possibile sintesi architettonica e scultorea che sarebbe emersa pienamente solo nel 1960 con l’avvento del minimalismo. La battaglia non è quindi solo formale ma spaziale e temporale, attraversa luoghi Movimento in piena aria e nel profondo consiste in una doppia curva che racchiude dinamicamente sia un’evocazione di grandi spazi celesti (“secondo la geometria non euclidea della modernità, l’orizzonte è curvo” dice Pomodoro) sia spazi terrestri. L’artista mette in scena un’azione scultorea, dispiegata come uno “scavo nella complessità delle cose”. Come nella rappresentazione di un fossile, si solidifica comprimendo la prospettiva geometrica rinascimentale e le prospettive moderne e moderniste che sono diventate un’esperienza diffusa e polverosa (Impressionismo e Post-impressionismo), un punto di vista multiplo e interconnesso (Cubismo), e lo slancio onirico (Surrealismo), assumendo la consapevolezza critica e autocritica di poter piegare quantisticamente il tempo e lo spazio, possibilità che questo sfondo scenico (“all’aria aperta e nel profondo”) sembra rappresentare appositamente.
Grande tavola della memoria e il Cubo. Una dominante scura riverbera intorno alla galleria in cui Le Battaglie è collocato, insieme ad altre due opere tra le più importanti nel percorso di ricerca dell’artista, entrambe le quali approfondiscono la narrazione dei suoi anni formativi e del suo primo sviluppo. Dopo le sue prime Tavole e Porte, il Grande tavola della memoria (1959-1965) fu il risultato di un’estesa riflessione dell’artista sulla tecnica del bassorilievo, in cui una sensibilità informale fu strutturalmente e concettualmente filtrata attraverso la memoria della “tecnica antichissima” della lavorazione dell’osso di seppia. Il palinsesto denso di segni che ne risulta ci invita a rallentare il tempo e ad amplificare la memoria. Dice A. Pomodoro: “La superficie della scultura richiede una visione lenta e ravvicinata dei singoli dettagli, anche se hai appena visto la forma monumentale nel suo insieme e percepito il ritmo generale della storia”. Similmente Il Cubo (1961-1962) coincide con l’inizio della ricerca dell’artista sulle forme elementari della geometria euclidea e sul tema geometrico dei solidi, scalzato però dal continuo scomporli, attraversandoli con i segni, un approccio che si ripeterà nella sua ricerca successiva, contribuendo a definire il suo personale minimalismo espressionista – o astrazione materiale – e corrispondente a un’immersione nella codificazione stessa dell’espressione linguistica e storica.
Rotativa di Babilonia e Tracce. Accogliendo la ciclicità costitutiva di Continuum (l’opera presentata nel finale della mostra a suggerire la possibilità di un eterno ritorno in cui fine e inizio si congiungono), Rotativa di Babilonia (1991) funge da raccordo fra le due sale principali rendendole quasi intercambiabili: l’opera, allestita in esterno ma visibile attraverso le vetrate del Palazzo della Civiltà Italiana, suggerisce la possibilità di un percorso che può andare avanti e indietro nel tempo e nello spazio. Nell’incorporare il movimento spazialmente e temporalmente circolare e continuo delle tracce lasciate sul terreno da una ruota, Rotativa di Babilonia costituisce anche un intermezzo che contrassegna il passaggio da un atto all’altro di un’opera teatrale, indicando la continuità fra un atto (sala) ipoteticamente precedente e un atto (sala) ipoteticamente successivo. Come afferma ancora Pomodoro: “Io vedo il movimento con il suo strumento originario: la ruota, origine di energia e misura del tempo. La prima ispirazione risale al 1961, quando, durante un viaggio in Messico, vidi un vecchio calendario azteco e realizzai la mia prima ruota”. Lungo il corridoio interno è allestita la serie delle Tracce I-VII (1998), ventuno rilievi calcografici in tre varianti di colore (nero, bianco e ruggine). Dichiara Pomodoro: “Ho realizzato una lastra in negativo di materiale plastico di alta resistenza, come un marchio violento e pressante che, abbassandosi sul foglio con la forza del torchio, lo increspa di quei segni che, quasi fossero veri rilievi, conservano la forza e la severità del bronzo”.
Continuum. Nella sala al cui centro è posto Movimento in piena aria e nel profondo, in cui riverbera la dominante chiara, è presentata anche l’opera che idealmente rimette in circolo la mostra, permettendole di ribaltare il suo finale e di ripartire dal suo incipit. In Continuum (2010), come dichiara Pomodoro stesso a proposito del valore propriamente antologico dell’opera, “compaiono le grafie semplificate degli inizi: volevo tornare a occupare interamente una superficie grandiosa con i miei primi segni. Riprendendo e approfondendo le origini del mio lavoro, le prime esperienze di incisione su piccole tavole, ho creato una sorta di tracciato infinito con i codici e l’inventario di tutta la mia ‘scrittura’. E la scrittura, di per sé, è continua: una riga dopo l’altra, sia che si tratti di scritture alfabetiche, che di scritture ideografiche”. Antologizzando e rendendo affini a sé “tutti i segni dell’uomo, soprattutto quelli arcaici: dai graffiti dei primordi alle tavolette mesopotamiche, quelli fatti per tramandare memorie e racconti”, Pomodoro rintraccia in quest’opera summa “una illeggibile lingua perduta”, che egli identifica nella “continuità” appunto con le sue prime opere e con quelle ancora a venire.
Ossi di seppia. Su una terrazza del Palazzo della Civiltà Italiana è collocata, fuori dalla mostra e quindi destinata a essere vista da chi frequenta le aree di lavoro dell’edificio, l’opera Osso di seppia (2011-2021), elemento che compone l’Ingresso nel labirinto della Fondazione Arnaldo Pomodoro a Milano. L’osso di seppia rappresenta la matrice, umile quanto universale, di tutte le opere scultoree dell’artista, ispirazione e riferimento già presente in natura a cui l’artificio del manufatto e delle teorizzazioni artistiche costantemente riconduce.
Scrive Pomodoro: “Ho iniziato il mio lavoro di scultore grattando l’osso di seppia e incidendolo con una serie di piccoli segni. Mi è venuta poi l’idea di usare la sagoma degli ossi stessi e di ingrandirli per farli diventare scudi, scettri, figure emblematiche. A volte mi sono concentrato a studiare tutte le strutture lamellari dell’osso; e allora scopri che ve ne sono alcuni che hanno una tessitura interna straordinaria alla quale ci si può ispirare. Lo scavare l’osso di seppia per ritrovare queste venature suggerisce talvolta forme magiche: e tu non hai fatto quasi nulla ed è l’osso di seppia che ti regala suggestioni e immagini che sono insieme frammenti di spiaggia, lembi del Mediterraneo”. Emblematicamente l’opera è quindi esposta all’esterno e sottratta alla visione diretta, come visione immaginata o portata via dal vento, ma fissa nella mente di chi, come Pomodoro, ha sempre inteso la scultura quale atto di comprensione del mondo, dei segni, delle forme e dei materiali delle sue, infinitamente possibili, civiltà.
Una doppia “mostra nella mostra“, le due gallerie principali presentano materiali di design e documentari. Per la maggior parte mai visti prima, sono disposti in due strutture modulari che evocano la doppia dimensione di studio e archivio: un rack e quattro cassettiere, che il pubblico può aprire e consultare. Il percorso di apprendimento per questi materiali è diviso in tre sezioni: Segni e parole. Les livres de peintre: una selezione dei libri più importanti dell’artista, esposti in vetrine sopra le cassettiere; Ricerca tra Segno, Forma, Spazio-Tempo: una selezione di documenti d’archivio in cassetti (schizzi, disegni, modelli, lettere, fotografie, cataloghi, ecc.) organizzati in cinque aree tematiche che attraversano cronologia e tipologia di opere/materiali; Siti del progetto: un nucleo selezionato dei progetti più significativi di Pomodoro, indipendentemente dal fatto che siano stati realizzati o meno, ciascuno narrato attraverso materiali di studio e documentari visibili sui pannelli della rastrelliera.
Carlo Franza