In un certo senso, si potrebbe dire che l’opera di Marisa Merz è infestata dai fantasmi. Non si tratta degli oscuri fantasmi degli incubi gotici, ma piuttosto dei luccicanti resti della presenza di oggetti nel palinsesto dello spazio e del tempo. Sono paradossalmente immateriali eppure completamente presenti (…) Douglas Fogle

Il curatore americano Douglas Fogle definisce il lavoro di Marisa Merz “in un certo senso infestato da fantasmi” e, specifica, “non quelli degli incubi gotici, quanto piuttosto dei resti scintillanti della presenza di oggetti nel palinsesto di spazio e tempo. Sono paradossalmente immateriali, eppure completamente presenti…”.

La sede napoletana della galleria inglese Thomas Dane dedica a Marisa Merz (Torino, 1926-2019) una importante personale spesso senza data, senza titolo e senza spiegazioni, perché l’artista non accettava di far catalogare il suo lavoro.

Non sembra esserci unione migliore del lavoro di Marisa Merz e della città di Napoli. È come se il suo regno bizantino di materiali elementari – argilla, rame, oro, bronzo, cera… – fosse stato creato per abitare e stabilirsi nelle strade tortuose e nei santuari d’angolo della grande città. O forse è la stessa Napoli che è stata in qualche modo costruita e ricostruita per ospitare l’opera di Merz? Dalle lastre di roccia vulcanica nera che fiancheggiano le sue strade, al tufo giallo e poroso – una pietra formata dai Campi Flegrei, una grande caldera vulcanica a ovest di Napoli che costituisce la maggior parte degli edifici qui – i napoletani hanno utilizzato ciò che era immediatamente ai loro piedi per costruire la loro città. Più o meno allo stesso modo Merz cercava di afferrare ciò che era immediatamente intorno a lei; trasformando materiali e oggetti “umili” o “quotidiani” in rituali e talismani.

La Thomas Dane Gallery è onorata di presentare una mostra personale di Merz, che la vede tornare a Napoli 17 anni dopo la sua prima mostra in città al Museo Madre nel 2007. La mostra alla Thomas Dane è visitabile fino al 23 marzo 2024.

All’interno del movimento dell’Arte Povera, emerso da un’Italia post-industrializzata e tumultuosa negli anni ’60, Marisa Merz occupa uno spazio molto singolare. Unica donna del gruppo d’avanguardia, ha mantenuto la sua presenza unica e duratura attraverso la circospezione e la delicatezza, con un’opera che ha continuato a riorganizzare generi, aspettative e interpretazioni.

Spesso senza data, senza titolo e senza spiegazioni, il suo lavoro rimane seducentemente privato, familiarmente domestico, ma ammaliantemente universale. I suoi oggetti danno il meglio di sé quando sono appoggiati sul pavimento, su una sedia o in un angolo… Le sue azioni, le sue sculture, i suoi disegni e le sue installazioni sono, letteralmente e metaforicamente, più a loro agio nelle cucine, nei vestiboli e nelle alcove, che nei grandi saloni e nelle pareti delle gallerie adornate.

Per quanto imperscrutabile e misteriosa, l’opera di Merz affonda le sue radici nella tradizione e nella classicità: trova le sue origini ancestrali nelle icone bizantine nell’austerità del Trecento, nella tenerezza del Beato Angelico nelle trasmutazioni di Medardo Rosso, fino ai metodi di studio di Brancusi e al dinamismo spigoloso dei futuristi.

Una scultura suggestiva, ad esempio, riappare in mostra in modo straordinario: un triangolo allungato di paraffina adagiato casualmente su un tappeto attraversato da fili di rame. In parte cuneo, in parte vaso, o forse qualche strumento musicale primordiale, che Richard Flood una volta descrisse melodiosamente come “simile a una fusione apollinea di cetra e koto”.

Questo è il lavoro di Merz, che affronta i miti e gli idiomi dell’antichità e del Neolitico mediterraneo, viaggiando attraverso lo spazio, il tempo e le discipline con la stessa facilità e una strizzatina d’occhio mistificante. Nelle sue mani, l’argilla e la carta inanimate si trasformano in oggetti quasi animistici, formando un’opera di icone, ex-voto e memento mori in cui il motivo ricorrente della testa umana è modellato e scolpito nell’argilla cruda, o dipinto in oro. I loro colli arcuati, leggermente inclinati all’ombra di un volto stoico, riecheggiano l’onnipresente sensazione di essere guardati indietro dalle sculture, dagli affreschi e dalle edicole che adornano le strade di Napoli. Inquietanti omaggi a ciò che è stato, o a ciò che sarà, Merz evoca queste immagini di figure come fantasmi e, come la città stessa, il suo universo palinsesto e pagano non può mai perdere il suo radicamento nella storia e nel cristianesimo.

Marisa Merz (1926-2019), visse e lavorò a Torino. Tra le istituzioni che hanno dedicato mostre personali al suo lavoro ci sono Lille Métropole Musée d’art modern, Villeneuve-d’Ascq, Francia (di prossima pubblicazione), The Met Breuer, New York NY, The Hammer Museum, Los Angeles CA, Centre Internationale d’art et du Paysage, ÎIe de Vassivière, Francia; Serpentine Gallery, Londra; Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina, Napoli, Italia; Stedelijk Museum, Amsterdam; Kunstmuseum Winterthur, Svizzera; e il Centre Georges Pompidou di Parigi. Il lavoro di Merz è stato incluso in innumerevoli mostre collettive in tutto il mondo, tra cui: Kunstmuseum Liechtenstein; CCS Bard/Hessel Museum of Art, New York, NY; Tate Modern, Londra; e l’Hirshhorn Museum, Washington DC. Merz ha partecipato cinque volte alla Biennale di Venezia e nella sua quinta mostra nel 2013 ha ricevuto il Leone d’Oro alla carriera.

Carlo Franza

 

 

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