Il 12 luglio ha aperto al pubblico la mostra estiva di Palazzo Ricci   Universi quotidiani“, promossa dalla Fondazione Carima con il patrocinio del Comune di Macerata e curata dal Direttore artistico del museo Roberto Cresti. La mostra è visitabile fino al 29 settembre 2024.

Il titolo dell’evento espositivo enuncia il tema che viene indagato, vale a dire la quotidianità. Un tema che in apparenza può sembrare comune, ma che in realtà rivela la vasta e complessa dimensione interiore degli artisti che lo hanno interpretato: Giorgio Morandi, Gianfranco Ferroni e Luciano De Vita, con la presenza d’eccezione di Francisco Goya.

Il Professor Cresti ha infatti spiegato come: «La vita di tutti i giorni è il principale banco di prova della nostra esistenza. La cultura europea dei secoli XIX e XX ne ha fatto una categoria interpretativa dell’essere umano: uno specchio dalle infinite dimensioni nel quale si sono riflessi i volti dei romantici, dei realisti, dei grandi ‘maledetti’, degli esistenzialisti fino ai minimalisti che hanno chiuso la lunga vicenda culturale del Novecento. Gli artisti del visibile hanno accentuato questo orientamento e hanno scoperto nella quotidianità una base da cui partire e a cui fare ritorno per i loro peripli espressivi».

Giorgio Morandi, di cui quest’anno ricorre il sessantesimo anniversario della morte, occupa una posizione di assoluta preminenza nell’arte novecentesca in Italia e nel mondo. Presente nella collezione di Palazzo Ricci con due pregevoli dipinti, “Vaso di rose” del 1947 e “Natura morta” del 1962, nel contesto di mostra viene valorizzato principalmente come incisore. Fu infatti titolare della cattedra di incisione all’Accademia di Belle Arti di Bologna dal 1930 al 1956.

Gianfranco Ferroni è tra i nomi più rappresentativi del panorama artistico degli ultimi decenni del Novecento. Il filtro della biografia si manifesta in tutte le fasi della sua lunga opera, che l’ha visto confrontarsi con la pittura, l’incisione e la fotografia. L’arte ferroniana ha un carattere storico rispetto al periodo in cui è vissuto, quello del dopoguerra prima e del boom economico dopo, che racconta sovente nei frangenti di povertà, degrado e marginalità. Le sue opere sono delle “icone quotidiane” e il suo dolore una “religione laica” che interroga gli oggetti e i luoghi della vita quotidiana in un processo di avvicinamento al senso dell’esistenza umana.

Luciano De Vita, marchigiano di nascita e bolognese di adozione, ebbe come maestro d’incisione lo stesso Morandi, del quale fu allievo prediletto, assistente e successore all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Al pari di Ferroni, rimase segnato in modo indelebile dalla crudeltà degli eventi bellici, che lo coinvolsero in prima persona e che pertanto permearono la sua produzione artistica. Un innominabile vissuto che ha riversato nei propri lavori prendendo come modello di riferimento «l’espressività delirante» di Francisco Goya, di cui vengono presentate alcune incisioni inedite. La presenza dell’artista spagnolo indica un percorso che, dagli ultimi due secoli, giunge fino ai nostri giorni e che ritroviamo nelle opere selezionate dal curatore.

Il percorso espositivo – ha concluso il Presidente Francesco Sabatucci Frisciotti Stendardi – propone una sessantina di pezzi tra dipinti, acqueforti e fotografie di artisti di assoluta qualità e di grande profondità espressiva, alcuni dei quali vengono esposti per la prima volta al pubblico. La mostra si distingue quindi per questo importante elemento di novità, che consentirà ai visitatori di fruire di opere del tutto nuove per il territorio maceratese, che si integrano con il Novecento di Palazzo Ricci”.

“Universi quotidiani” sarà visitabile gratuitamente fino al 29 settembre 2024.

Giorgio Morandi

Nato da una famiglia della piccola borghesia bolognese il 20 luglio 1890, Giorgio Morandi studiò all’Accademia di Belle Arti del capoluogo emiliano, diplomandosi nel 1913. Alla ricerca di uno stile privo di qualunque accademismo, influenzato da una prima conoscenza dell’opera di Paul Cézanne e di Henri Rousseau, il Doganiere, prese contatto, insieme ai suoi compagni di studi Osvaldo Licini, Severo Pozzati, Mario Bacchelli e altri, con l’avanguardia futurista italiana, esponendo in mostre collettive a Bologna e Roma. Nel corso della Prima guerra mondiale, grazie al congedo dall’esercito ottenuto per una grave malattia polmonare, sviluppò una pittura derivante dalla Metafisica di Giorgio de Chirico e Carlo Carrà, che lo avrebbe segnalato, nell’immediato dopoguerra, all’attenzione di Mario Broglio, fondatore della rivista romana, ma di respiro internazionale, «Valori Plastici». Col gruppo formatosi intorno alla rivista, espose negli anni ’20 in Italia e in Germania per poi maturare un’adesione al Novecento Italiano di Margherita Sarfatti, partecipando anche alla Biennale di Venezia e alla Quadriennale di Roma. Presto riconosciuto, oltre che come pittore, come maestro della tecnica incisoria, tenne la cattedra di tale insegnamento dal 1930 al 1956 all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Soggiornò per lunghi periodi, compresi gli anni della Seconda guerra mondiale, nel paese appenninico di Grizzana (oggi Grizzana-Morandi), di cui dipinse e incise molti paesaggi. Dopo il 1945 la sua fama crebbe ulteriormente raggiungendo un’estensione internazionale, con mostre in Europa e in Sud America. Si spense il 18 giugno 1964 nella casa bolognese di via Fondazza 36, dove aveva trascorso la vita con le tre sorelle e prodotto gran parte della sua opera.

Gianfranco Ferroni

Gianfranco Ferroni nacque a Livorno il 22 febbraio 1927 da una famiglia che subì un pesante rovescio economico a seguito della Seconda guerra mondiale (il padre, ingegnere, rimase senza lavoro). Le vicende belliche portarono i Ferroni a riparare in Lombardia, in provincia di Varese, in un ambiente da cui il futuro pittore si volle liberare, nel primo dopoguerra, lasciando i genitori e trasferendosi a Milano per assecondare la sua vocazione artistica. Si formò da autodidatta nell’ambiente milanese e si affermò, alla fine degli anni ’50, nel contesto del cosiddetto «realismo esistenziale» (G. Banchieri, G. Cazzaniga, M. Cerretti, G. Guerreschi, G. Romagnoni, T. Vaglieri). Espose alla Biennale di Venezia nel 1958, trovando, nel corso degli anni ’60 – in cui prese parte anche al gruppo Il pro e il contro (U. Attardi, E. Calabria, F. Farulli, G. Ferroni, A. Gianquinto, P. Guccione, G. Guerreschi, G. Romagnoni, R. Vespignani) – una corrispondenza fra il proprio lavoro e i movimenti politici antagonisti della società italiana sviluppatasi con il boom economico. Visse prevalentemente in Lombardia, fra Milano e Bergamo, ma fece lunghi soggiorni in Toscana, a Viareggio (ove si stabili dal 1968 al 1972), sviluppando il sodalizio col pittore e scrittore Sandro Luporini. Dagli anni ’70 accentuò la dedizione ad una pittura di impianto apparentemente tradizionale, ma con effetti luminosi di straordinaria originalità, che rivelano corrispondenze con l’opera del grande maestro spagnolo Antonio López García. Nel 1979 promosse con l’amico Luporini il gruppo della Metacosa (G. Biagi, G. Bartolini, G. Ferroni, B. Luino, S. Luporini, L. Mannocci, G. Tonelli). Nel 1982 fu nuovamente invitato, con una propria sala, alla Biennale di Venezia, mentre la sua rilevante e continua attività d’incisore, incominciata alla fine gli anni ’50, venne documentata da una grande mostra retrospettiva tenutasi a Trento, nel 1985. Antologiche di notevole respiro furono organizzate, negli anni ’80 e ’90, a Napoli, Bologna e Milano. Ferroni morì a Bergamo il 12 maggio 2001.

Luciano De Vita

Luciano De Vita nacque ad Ancona il 24 maggio 1929. Dopo avere combattuto giovanissimo nella Seconda guerra mondiale, si iscrisse all’Accademia di Belle Arti di Bologna dove ebbe come maestri Virgilio Guidi per la pittura e Giorgio Morandi per l’incisione. Nel 1954 Morandi lo volle come proprio assistente e, dopo il pensionamento del maestro, nel 1956, De Vita (che vedeva nelle acqueforti di Francisco Goya uno specchio della sua esistenza) ebbe la cattedra di incisione a Torino, all’Accademia Albertina, poi nel 1962, a Milano, all’Accademia di Brera, e la mantenne fino al 1976. In quell’anno tornò a insegnare incisione all’Accademia di Bologna, ove rimase fino al 1992, anno del pensionamento. Prese parte a mostre di grande rilievo, come la Quadriennale di Roma del 1959 e la Biennale di Venezia del 1960 (ove ebbe un premio per le acqueforti), e, nel corso degli anni ’60, espose in personali a New York, Roma, Parma e a Bologna, alla Galleria de’ Foscherari. Nel 1975 una sua antologica, curata da Andrea Emiliani, inaugurò la nuova Galleria d’Arte Moderna del capoluogo emiliano. Fu anche scultore, scenografo, costumista e regista, lavorando per il Teatro Comunale di Bologna (Turandot, di G. Puccini, 1969; Otello, di G. Verdi, 1971) e per La Scala di Milano (B. Bartók, Il Castello del Principe Barbablù, 1978). Morì a Bologna il 14 luglio 1992.

Francisco Goya

Francisco Goya y Lucientes ebbe i natali, il 30 marzo 1746, a Fuendetodos, piccolo centro della Aragona, vicino a Saragozza. Dopo l’iniziale apprendistato nella bottega di José Luzán, grazie all’amicizia col pittore Francisco Bayeu, che era stato chiamato a lavorare a Madrid da Anton Raphael Mengs, entrò nella cerchia di Mengs stesso, il quale gli consigliò di compiere un viaggio di formazione in Italia. Dopo essere stato, tra il 1770 e il 1771, a Roma, Parma e in altre città della penisola, ritornò in Spagna dove cominciò ad avere commissioni importanti, in particolare una serie di cartoni per arazzi della Manifattura Reale di Santa Barbara. Cresciuto nella considerazione dei salotti della capitale anche per alcuni ritratti, riuscì a farsi nominare nel 1789 da Carlo IV pittore della Camera del Re. La fortuna però durò poco. Nel 1792 un’improvvisa malattia lo portò quasi alla morte, lasciandolo nella totale sordità. L’eclisse del mondo in cui si era affermato seguì quella esperienza fatale: la crisi politica interna della Spagna, dilaniata fra progressisti e conservatori, precipitò fino all’invasione francese del 1807-1808. Testimone delle contraddizioni del tempo, Goya le riversò, già dopo la suddetta malattia, in un’intensa attività come incisore. A Madrid, nel 1797, sovraintese alla stampa degli 80 Capricci (Caprichos), cui sarebbero seguiti altre raccolte del genere, intrecciate a dipinti destinati a divenire quasi leggendari, come, nel 1805, la Maja vestida e la Maja desnuda. Nel periodo della Restaurazione, spossato mentalmente e fisicamente, sospetto a corte per le sue simpatie liberali, si ritirò sempre più a vita privata, dipingendo nella casa di Manzanarre il famoso ciclo delle pitture nere, e cercando poi rifugio in Francia, ove si spense a Bordeaux il 16 aprile 1828.

Carlo Franza

 

 

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