L’artista Bruno Mangiaterra fra poesia e filosofia. Espone a Milano grandi opere concettuali che raccontano il mondo e la vita.
La mostra dal titolo “Nel sofisma della visione” allestita dall’artista Bruno Mangiaterra (Loreto-Ancona 1952) con sue opere per lo più grandi hanno trasformato l’Artestudio 26 di Milano, offrendone una visione di ricerca assoluta, o meglio dando compiutamente l’idea di un sistema dell’arte che abbraccia il mondo intero. Qualche tempo fa scrivendo dell’artista marchigiano porgevo il lavoro dell’artista in quell’area di postclassicismo che assorbe, specie in Italia oggi, dinamiche concettuali. Non dimentichiamo che nella filosofia di Platone la “mimesi”designa il rapporto tra le cose sensibili e le idee. Le opere più recenti, e quelle in mostra a Milano per Expo 2015, si trasformano in soglia di accesso a una temporalità nuova, seppure ermetica. Grandi teleri divenuti tendaggi che svelano e raccontano una vita artistica, emotiva e sensoriale nuova, autonoma e innovativa. Opere che diventano pagine di vita, racconti del quotidiano e del vissuto, affidate a reperti, oggetti, colori, sacchetti, pigmenti, e altro. Intanto la luce, da sempre fondamentale nelle arti visive, che ha trovato in Bruno Mangiaterra una sorta di nuovo riscatto, in quanto superando il valore luce applicato alla pittura ha utilizzato materiali connessi alla generazione di luce con mezzi artistici e come strumenti di comunicazione del pensiero. Mangiaterra adotta la luce per comunicare messaggi, per riaccendere il filo della filosofia, per incorniciare la memoria poi tradotta e filtrata, per oggettivare ricordi e climi culturali – basti pensare a Licini e Morandi-, che aprono oggi a scenari d’avanguardia. L’opera è così talvolta un grande schermo dove è inserita una narrazione fatta di tracce, di scritture, di simulazioni, di rituali, di geometrie (cerchi, linee,ecc.), di impronte, di segni-memoria come le piume d’uccello.
Bruno Mangiaterra non è più il genio sregolato e originale, ma per l’appunto un “art worker” ossia un operatore estetico, un filosofo che legge e decifra il mondo, quello esterno e quello interiore, de materializzando il passato, come ha fatto con le bottiglie di Morandi, e portandosi da un’arte puramente retinica a un’arte delle idee.
E quelle relazioni tra cose, oggetti e spazio sono diventate così citazioni, ripetizioni, duplicazioni, approfondimenti, catalogazioni, rituali, che svelano così la vera natura dell’opera, portandosi oltre la consistenza della pittura; un’arte fatta di concetti, metafore, allusioni e idee. L’artista aiuta il mondo a leggere quanto vi è in esso, rivelandone le verità poetiche e mistiche. L’artista è creatore di idee, riscontrabili, codificate; e non meraviglia oggi di vedere Bruno Mangiaterra, da filosofo ante litteram, prima che artista, trasformare la propria autobiografia in quella degli altri che vi si riconoscono con i propri ricordi. Nella sfera degli interessi estetici per Mangiaterra vive il carattere scenografico delle opere che raccontano, come già dicevo, il tempo suo e la propria vita, costruendone veri e propria sacrari della memoria; opere come testamento spirituale, ovvero il modo dell’artista per rappresentare se stesso nel continuo divenire dell’esistenza, nel rappresentare tracce e orme di vita, nel tentativo –certamente riuscito- di fotografare il tempo. Realtà e invenzione, fotografia e reliquia, poesia e pittura. Mangiaterra vive e fa vivere il passaggio epocale che sposta l’arte dall’apparenza alla concezione, dalla forma all’idea. Una ricerca -la sua- fondata sull’inesauribile potenzialità delle immagini e sull’attesa di quelle a venire.
Carlo Franza