A Firenze la “Bellezza Divina”, ovvero il sacro nell’arte contemporanea in mostra a Palazzo Strozzi. Celebri opere che raccontano le radici cristiane dell’Europa.
Palazzo Strozzi a Firenze ospita una mostra veramente divina che ha per titolo “Bellezza divina tra Van Gogh, Chagall e Fontana”, un’eccezionale mostra dedicata alla riflessione sul rapporto tra arte e sacro tra metà Ottocento e metà Novecento attraverso oltre cento opere di celebri artisti italiani, tra cui Domenico Morelli, Gaetano Previati, Felice Casorati, Gino Severini, Renato Guttuso, Lucio Fontana, Emilio Vedova, e internazionali come Vincent van Gogh, Jean-François Millet, Edvard Munch, Pablo Picasso, Max Ernst, Stanley Spencer, Georges Rouault, Henri Matisse.
Dalla pittura realista di Morelli all’informale di Vedova, dal Divisionismo di Previati al Simbolismo di Redon, fino all’Espressionismo di Munch o alle sperimentazioni del Futurismo, la mostra analizza e contestualizza un secolo di arte sacra moderna, sottolineando attualizzazioni, tendenze diverse e talvolta conflitti nel rapporto fra arte e sentimento del sacro.
Grandi protagoniste della mostra sono celebri opere come l’Angelus di Jean-François Millet, eccezionale prestito dal Musée d’Orsay di Parigi, la Pietà di Vincent van Gogh dei Musei Vaticani, la Crocifissione di Renato Guttuso delle collezioni della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, la Crocifissione bianca di Marc Chagall, proveniente dall’Art Institute di Chicago. Attraverso sezioni dedicate ai temi centrali della riflessione religiosa e artistica, “Bellezza divina” costituisce un’occasione straordinaria per confrontare opere celeberrime studiate da un punto di vista inedito, presentate accanto ad altre di artisti oggi meno noti ma il cui lavoro ha contribuito a determinare il ricco e complesso panorama dell’arte moderna, non solo sacra.
L’esposizione nasce da una collaborazione della Fondazione Palazzo Strozzi con l’Arcidiocesi di Firenze, l’Ex Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze e i Musei Vaticani.
Tra i protagonisti della mostra, il capolavoro di Jean-François Millet “L’Angelus“, eccezionale prestito dal Musée d’Orsay di Parigi. Nel 1865, l’autore racconta: “L’Angelus è un quadro che ho dipinto ricordando i tempi in cui lavoravamo nei campi e mia nonna, ogni volta che sentiva il rintocco della campana, ci faceva smettere per recitare l’angelus in memoria dei poveri defunti“. Dalle sue stesse parole non è difficile intuire che la “divina bellezza” di quest’olio su tela datato 1858/59, non sta nell’esaltare un comune sentimento religioso, ma piuttosto nell’assoluta devozione di una coppia di contadini che ha interrotto il duro lavoro al suono delle campane che annunciano l’Angelus, in una raffigurazione di vita semplice scandita da ritmi immutabili. Nella loro indiscussa dignità, com’è tipico per Millet, le due figure in controluce, più scure rispetto al paesaggio retrostante, si impongono al centro della scena concentrati e intenti a pregare, esprimendo un profondo senso di raccoglimento e una fragile dolcezza. Tra i tanti italiani in mostra spicca senza dubbio Renato Guttuso e la sua “Crocifissione“, prestito della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Esposta nel 1942 in occasione del Premio Bergamo la tela valse all’autore l’appellativo di pictor diabolicus per la forte carica espressiva e rivoluzionaria e nella fattispecie per la nudità dei personaggi. Scandalizzare, tuttavia, non era l’intento di Guttuso che nel ’65 scriveva: “La nudità dei personaggi non voleva avere intenzione di scandalo. Era così perché non riuscivo a vederli, a fissarli in un tempo: né antichi né moderni, un conflitto di tutta una storia che arrivava fino a noi. Mi pareva banale vestirli come ogni tentativo di recitare Shakespeare in frac, frutto di una visione decadente. Ma, d’altra parte, non volevo soldati vestiti da romani: doveva essere un quadro non un melodramma. Li dipinsi nudi per sottrarli a una collocazione temporale: questa, mi veniva da dire, è una tragedia di oggi, il giusto perseguitato è cosa che soprattutto oggi ci riguarda. Nel fondo del quadro c’è il paesaggio di una città bombardata: il cataclisma che seguì la morte di Cristo era trasposto in città distrutta dalle bombe”. In questo caso il binomio arte-sacro, si manifesta secondo il pittore siciliano con la rappresentazione di un evento che diventa il dramma di ogni essere umano, un evento che passa da scena biblica a scena comune, in cui il Cristo non è altro che l’emblema di ogni sopruso e supplizio, il dramma di chi subisce oltraggio e ingiurie per le proprie idee. Il titolo stesso dell’opera, “Crocifissione“, e non “La Crocifissione“, evidenzia non a caso l’universalità della violenza e del dolore che non è più solo del personaggio biblico, bensì universale.
Altro grande protagonista della rassegna è la “Pietà” di Vincent van Gogh dei Musei Vaticani, capolavoro che si inserisce in una serie di adattamenti che il pittore olandese mette in pratica studiando gli autori che più colpiscono la sua sensibilità, come Delacroix e Rembrandt. “Posso assicurarti che eseguire copie mi interessa enormemente – scriveva al fratello Theo – e mi consente di non perdere di vista la figura, anche se al momento non dispongo di alcun modello… è un tipo di studio di cui ho necessità, perchè desidero imparare.” In camera Van Gogh conserva tra le cose più care una serie di litografie dei suoi artisti preferiti e tra tutte a coinvolgerlo maggiormente c’è la “Pietà” di Delacroix, complice “quell’uragano che ha nel cuore” che van Gogh percepisce molto simile al suo. Osservando il dipinto, e per quanto la composizione sia la medesima, ma in controparte, si intuisce quanto van Gogh veda nei modelli di riferimento uno spartito da interpretare secondo il suo stato d’animo e la sua esperienza: spiccano stridenti i colori, come il blu del mantello della Madonna in contrasto con il giallo acido, e i colori del cielo. L’unica volta che l’artista deciderà di dipingere un Cristo lo farà giustappunto con l’episodio della Pietà: la sua divina bellezza è sofferente come il volto scavato e dalla barba rossiccia di Gesù che richiama inevitabilmente quello del pittore e sa, senza filtri, consegnarci una forma del suo dolore.
Il cuore dell’esposizione è naturalmente rappresentato dalle quattro opere di più forte richiamo: Via Crucis II, III e XIII e Crocifissione di Lucio Fontana; Pietà di Van Gogh; Crocifissione bianca di Chagall. L’ultima opera citata è caratterizza da una modernità espressiva iconografica fortemente evocativa: l’alfa e l’omega dei tempi sembrano avvitarsi in modo rotatorio intorno alla figura del Cristo agonizzante; l’armata rossa, le sinagoghe in fiamme, la diaspora degli ebrei, la presenza del Male nel mondo si avvicendano e si rincorrono, mentre fisso sulla scena, sconfitto e vincitore, l’Unto, ebreo tra ebrei, spira per l’umanità. Menzione speciale all’opera di Vincenzo Vela, La preghiera del mattino del 1846; non è molto conosciuta, rispetto alle sculture più celebri di Canova, Bernini etc., ma è sicuramente la più intensa e suggestiva di tutto il percorso. Spiritualità e realismo plastico sono esaltate nelle forme leggiadre di una fanciulla assorta nella preghiera. La presenza di Dio si percepisce non come raffigurazione esplicitata, ma come fenomeno interiore che s’irradia dalla figura femminile, ascetica e concentrata, al mondo intero.
E alla fine del percorso di mostra vi assicuro ne uscirete cambiati nel corpo e nell’anima, più sereni e più carichi di speranza.
Carlo Franza