Jean-Pierre Velly, il maestro bretone in mostra a Roma presso l’Istituto Centrale per la grafica. Misteriose ombre e luci vestono di colori opere straordinarie.
Recensire una mostra come questa non è solo doveroso per uno storico dell’arte , ma aggiunge una pagina in più alla riflessione e allo studio di un artista ancora da approfondire. Tiziana D’Acchille, direttrice dell’Accademia di Belle Arti di Roma e Maria Antonella Fusco, dirigente dell’Istituto centrale per la grafica, hanno brillantemente presentato la mostra “Jean-Pierre Velly. L’Ombra e la Luce” , curata da Pier Luigi Berto, Ginevra Mariani e Marco Nocca , aperta a Palazzo Poli (Fontana di Trevi), prestigiosa sede espositiva dell’Istituto centrale per la grafica. Nell’occasione dei venticinque anni dalla tragica scomparsa di Velly e per la prima volta a Roma dopo la grande mostra a Villa Medici del 1993, le due istituzioni intendono reinserire e fare cornice all’opera e alla figura del maestro bretone (Audierne 1943 – Trevignano 1990), Grand Prix de Rome per l’incisione (1966) storicizzando ancor più l’intero lavoro e assegnandogli finalmente quella posizione onorevole che gli compete nella cerchia dei grandi artisti contemporanei.
La mostra mette in luce non solo la figura storica dell’artista ma è veramente interessante notare un percorso privilegiato all’interno del nucleo poetico del lavoro di Velly, attraverso la metafora alchemica, ribadita dalla splendida Melencolia di Albrecht Dürer che apre l’itinerario. La prima sala, Nigredo, allude allo stadio della trasformazione della materia: qui è Jean Pierre Velly, artefice e iniziatore della creazione, ad accogliere i visitatori con una parete dedicata ai suoi celebri “Autoritratti”. Il processo creativo dell’artista si caratterizza proprio attraverso il confronto tra disegni preparatori inediti e prove di stato: dalla “notte eterna dell’universo” emergono le sue magnifiche visioni, le straordinarie incisioni a bulino, che fanno ritrovare il bianco e la luce con stupore, sottraendoli al buio. La seconda sala, Albedo , che rimanda alla purificazione della materia, ospita il nucleo di acquerelli e i disegni a punta d’argento, tecnica dei maestri rinascimentali . La terza sala, Rubedo , offre una selezione dell’opera pittorica. La pittura è per l’artista approdo finale e rasserenante, da poter dire : “con i colori mi piace poter raccontare che nulla è grave, che un giorno morirò ma l’umanità continuerà”. I bellissimi acquerelli di soggetto floreale stemperano visivamente l’affascinante mistero nero di Jean Pierre Velly, chiarendo anche le ambizioni della sua arte . È significativo che la mostra di Jean-Pierre Velly si ponga in continuità ideale con la recente esposizione di Balthus, direttore a Villa Medici ed estimatore del giovane artista, quasi a raccoglierne il testimone: “quando vedo un dipinto di Balthus – dichiarava l’artista bretone a Jean-Marie Drot – mi dico: qui non c’è falsità, non c’è inganno”. Ora, a distanza di tempo, guardando Balthus, osservando Velly, si chiarisce e si dipana ancor più ogni possibile correlazione, ancor più ogni accendibile traccia, ancor più ogni misteriosa atmosfera .
Jean-Pierre Velly (Audierne 1943 – Trevignano 1990), vincitore con il bulino “La Clef des Songes” nel 1966 del Grand Prix de Rome per l’incisione, dopo il triennale soggiorno a Villa Medici sotto lo sguardo di Balthus suo direttore, dal 1970 sceglie di rimanere in Italia, a Formello (Roma), dedicandosi al disegno, all’incisione e alla pittura. Grazie alla stima e all’amicizia di Giuliano de Marsanich, gallerista e mecenate, negli anni Settanta, un frangente difficile per gli artisti votati alle tecniche tradizionali, Velly riesce ad imporre le sue visioni, conquistando la critica più qualificata (J. Leymarie, A. Moravia, M. Praz, L. Sciascia, V. Sgarbi, F. Simongini, G. Soavi, R. Tassi, M. Volpi) ed entrando in collezioni prestigiose (Barilla, Olivetti). Conoscitore delle tecniche antiche del disegno, a partire dal 1978 Velly offre i primi saggi di pittura ad acquerello in Velly pour Corbière , omaggio al poeta maledetto suo conterraneo, con l’introduzione di Leonardo Sciascia . Nel 1980 è la volta di Bestiaire perdu, presentato da Alberto Moravia e Jean Leymarie, splendida serie di “ritratti su carta” di animali odiati dall’uomo. Nell’ultimo decennio di attività l’artista si dedica prevalentemente alla pittura, con la magnifica serie di tavole floreali ideate per il calendario Olivetti del 1986; e i dipinti di paesaggio, tra cui Après, Grande paesaggio, Grand coucher du soleil, Grande bourrasque. In questi stessi anni ritorna più volte sull’ autoritratto, sorta di riflessione interiore, sulla tela e sulla carta. Nel 1990 muore in un incidente di barca sul lago di Bracciano.
Carlo Franza