La fotografia di Giorgio Cutini. Un viaggio fra Marche e Italia con immagini divenute scatti miracolosi che sfogliano luci, bellezze e poesia.
Dopo la recente mostra dal titolo “Le mie poetiche Marche” che il fotografo Giorgio Cutini ha tenuto insieme agli scatti di Mario Giacomelli ed Eros De Finis, nel luglio 2016 nella Casa natale di Raffaello a Urbino, in occasione del Premio Gentile da Fabriano XX edizione 2016, è in corso anche al Plus Berlin di Berlino la mostra di Cutini dal titolo “Alla ricerca del tempo perduto”. Mostre, ambedue, che fotografano il paesaggio e i luoghi amati dall’artista fotografo; un paesaggio sottoposto allo scorre del tempo e dei giorni e, dunque, per la fotografia, della luce che investe e perfora città e luoghi, e finanche oggetti, figure e persone.
C’è un rapporto privilegiato fra l’anconetano Giorgio Cutini e le sue Marche. “Le Marche sono il paesaggio italiano più tipico, specie nel Maceratese e ai suoi confini”, così scriveva Guido Piovene nel suo “Viaggio in Italia” nel 1957. Il su e giù delle colline, i variegati campi curati dall’uomo, arati, ordinati, in un alternarsi di colori e toni dai marroni ai verdi, eppoi sui cucuzzoli disseminati in questo paesaggio movimentato, borghi che paiono presepi, e in lontananza il blu dell’Adriatico. Ecco perché Piovene ne rimase incantato, come d’altronde io stesso negli anni fra il ’50 e inizi ‘60 -in cui dimorai a Loreto- ebbi modo di impressionare negli occhi di fanciullo quei paesaggi che fanno la storia delle Marche. Ed ancora ecco perchè anche Giacomelli dedicò nel suo percorso scatti memorabili a questa terra. E anche il New York Times qualche anno fa ebbe modo di scrivere: “L’Italia non c’è più sopravvive qui”. Sono le terre di Leopardi e del suo “Infinito”, e da quei luoghi il panorama spazia dai Sibillini -oggi colpiti dal terremoto- al profondo blu del mare. Il bello di Giorgio Cutini è nel cogliere la vita, il paesaggio, l’esistenza, il tempo che trapassa e fugge, i luoghi e la storia; fermando con scatti anche un po’ veloci, quei pochi attimi di luce -bagliori, lampi- che attraversano ogni cosa, sicchè il tempo dell’io diventa il tempo dell’opera, in un altalenante gioco di chiaroscuri, di trasporto e movimentazione di quanto colto velocemente. Negli scatti della maturità c’ è nel nostro fotografo la coscienza di una storia che è divenuta subito memoria, tempo di non ritorno, il fotografo appare di fatto un filosofo che si è interrogato e si interroga incessantemente proprio attraverso questi scatti miracolosi, sicchè paesaggi, architetture, figure, e gli stessi frammenti del tempo, diventano romanzi circolari, dove la potenzialità narrativa di quanto descritto è diventata una poesia infinita.
Carlo Franza