Universitaly. La cultura in scatola. Un libro illuminante di F. Bertoni fa il punto sull’Università italiana diventata un grande mercato, un concentrato di stupidità.
Se l’Università italiana si è ridotta a un grande mercato è colpa di quel toscano che ciacola a vuoto, che ha nome Matteo Renzi. Addirittura il governo Renzi ha annunciato la prossima uscita dell’università dal pubblico impiego, che vuol dire avviarne la privatizzazione. Una vergogna inaudita. Un insulto alla cultura e alla scienza. Oltrechè un insulto all’Italia. Un forte e agguerrito libro, lucido e coraggioso, ma libro soprattutto amaro, amarissimo, dal titolo “Universitaly. La cultura in scatola”(Laterza,150 pagg. euro 15) del collega Federico Bertoni, professore di Teoria della Letteratura all’Università di Bologna, ne affronta la questione e ne spettacolarizza l’istituzione che anziché essere luogo di cultura e sapere e fondamento della professione intellettuale è diventata un grande mercato di strilloni che sanno poco e nulla. Come sono lontani i tempi in cui noi frequentavamo l’Università, e che luogo era l’Università! Penso per me, lontani i tempi in cui alla Sapienza a Roma insegnavano Natalino Sapegno, Giulio Carlo Argan, Ettore Paratore, Mario Praz, Renzo De Felice, Rosario Villari, Giuseppe Ungaretti, ecc. Oggi l’università italiana è un luogo comune, un mercato rionale dove -si chiede Bertoni- perché l’università italiana “un luogo di elaborazione e di trasmissione della conoscenza diventa uno straordinario concentrato di stupidità?” Ne anticipo un estratto dal libro di Bertoni, parole illuminanti : “In principio erano due numeri, anzi un’addizione: 3+2. È la formula con cui viene designata comunemente la riforma voluta dall’allora ministro Luigi Berlinguer, che ha cambiato radicalmente gli ordinamenti didattici e la struttura di fondo dell’università italiana. Dico “cambiato” in senso astratto, per sentito dire, perché rispetto al cambiamento non ho mai vissuto un prima e un dopo: ho preso infatti servizio nel novembre del 2000, proprio quando entrava in vigore il nuovo assetto concordato a livello europeo nel cosiddetto “Processo di Bologna” (giugno 1999) e poi sancito dal Decreto Ministeriale 509 del 3 novembre 1999. Come i prigionieri di Platone nella caverna delle ombre, non conosco dunque altra realtà che questa. La mia vita accademica si è sostanzialmente svolta tra le costanti e le variabili di questa formula: un primo ciclo di tre anni concluso dalla Laurea e da un epiteto fondamentale in terra italica, “dottore”; e un eventuale secondo ciclo di due anni che inizialmente si chiamava Laurea Specialistica e che in seguito (potere magico dei nomi!) si è nobilitato in Laurea Magistrale. Poi, nei meandri tecnici di questo impianto generale, una complicatissima ingegneria burocratica fatta di tabelle e classi di laurea, ordinamenti e regolamenti, curricula e piani didattici. Ci siamo letteralmente spaccati la testa. E l’università italiana ha dato i numeri: 180 crediti al triennio, 120 al biennio, 60 all’anno; quote fisse di crediti definite dalle tabelle ministeriali e ripartite in discipline «di base», «caratterizzanti», “affini e integrative”, con un certo margine di manovra lasciato alle singole facoltà. Un puzzle, un rompicapo, un Risiko per ammazzare la noia (e forse gli ultimi cervelli pensanti). Ho visto cose che voi umani… Colleghi che schieravano le truppe per annettere tre crediti in più alla loro disciplina; altri che lottavano come dannati perché volevano stare tra le “caratterizzanti” (o forse tra le “base”, mai capito quali contassero di più); altri ancora che tessevano alleanze per sgominare un nemico o attestarsi in un punto strategico. I rapporti di forza si consolidavano con la sanzione implacabile dei numeri. Chi era un po’ somaro in aritmetica era fregato: se ti distraevi e non facevi bene i calcoli ti tagliavano fuori, e buona notte. La cosa più impressionante era lo sfrenato, abissale scollamento tra il nostro vero lavoro e ciò di cui si discuteva per ore e ore nelle commissioni e nei consigli di facoltà. Era la distanza siderale che separava i contenuti, i metodi, la passione e l’esperienza vissuta del nostro sapere dagli scatoloni più o meno vuoti in cui cercavamo di stiparlo, costruendo corsi e master come mobili dell’Ikea, e con l’unica preoccupazione di far tornare i conti. Perché il 3+2, soprattutto all’inizio, è stato davvero un grande business: scelte politiche e provvedimenti legislativi hanno fornito il quadro giuridico in cui far scorrazzare l’imperdonabile irresponsabilità del corpo docente italiano. Crediti in più per la propria disciplina, possibilmente obbligatori, significavano un maggior numero di studenti, corsi sdoppiati, esami, tesi – e dunque nuovi posti da rivendicare, e maggior potere. Gli effetti immediati, impliciti nel sistema e assolutamente prevedibili, sono stati quelli che hanno legittimato le riforme delle riforme e i tagli finanziari successivi: proliferazione delle sedi didattiche e dei corsi di laurea, moltiplicazione e frammentazione estrema degli insegnamenti. Fai crescere in modo indiscriminato la foresta e poi affili la scure. Genio strategico di prim’ordine. Trappola perfetta”.
Per Bertoni la preoccupante mutazione subita negli ultimi anni dal sistema universitario della Penisola, individuandone le cause sia a livello esterno e politico (e dunque le varie Riforme, dalla Berlinguer alla Gelmini), è di ordine sia interno che strutturale. Il quadro è spaventoso, un’infornata di professorini senza cultura di base, ossequienti ai partiti, specie alla sinistra, in una palude ancora non bonificata da vizi antichi (gerarchie, baronati, misticismi, clientelismi, ecc). Bertoni individua le ragioni alla base di “un fallimento collettivo” (p. VII) e guarda alle cose dall’interno, perfino mettendosi in gioco “personalmente” (p. VIII), così riuscendo a far fare esperienza al lettore di quella che è, oggi, “la giornata di un professore” (p. 3). Descrive alcuni episodi, “rigorosamente veri” (p. 8), di quella che è “un’istanza positivista che, in mancanza d’altro, colonizza le pratiche gestionali e organizzative della ricerca” , dando spazio a una compilazione di tabelle, misurazione di obiettivi e risultati, per avvitarsi a stringenti criteri numerici. Il coinvolgimento diretto l’Autore lo vive nei dipartimenti di studi letterari e umanistici, stritolati da “una furia tassonomica e nomenclatoria” (p. 10), è così che si fa un’idea chiara di ciò che si abbatte su “tutto ciò che si muove tra le mura delle nostre università” (p. 11) con la pretesa di misurare la qualità degli articoli scientifici, dei corsi di dottorato, dell’offerta formativa.
E’ opinione dell’Autore, che il male è la “macchina ideologica che dissimula la soggettività del giudizio soggettivo in un apparato ipertrofico di numeri”; egli porta allo scoperto quella visione “pragmatica” (p. 12), vale a dire scopi e interessi politici. E’ dalla formula del 3+2 l’inizio della “mutazione” (p. 18): l’accento sulla professionalizzazione a spese della trasmissione di una solida cultura, la volontà politica di differenziare gli Atenei e ridurre i finanziamenti, la diffusione di una soffocante burocrazia, la litania dell’eccellenza, “simulacro di un’idea senza contenuto”(p. 24). Lo soccorre il riferimento al profetico libro “The university in ruins”, ovvero quello status che ha interessato il Nord America sin dai primi anni ’90 per poi giungere “qui da noi” alle soglie del Duemila. Bertoni rintraccia nella “sinergia” (p. 34) tra misurazione, burocrazia e informatica “la governamentalità dell’attuale mondo accademico”(p. 37); ecco allora una prima risposta sul perché di quella stupidità che impregna il mondo universitario, descrive l’università “emblema e specchio concentrico della realtà sociale” (p. 36), dove brutture e dinamiche sono riproposte e amplificate “come sul vetrino del microscopio”.
È un quadro desolante quello che viene fuori dal libro di Bertoni, giacchè nelle pubbliche università si stanno “accumulando danni su danni” (p. 109), e ciò nel quadro di una più devastante crisi culturale ed etico-politica. Per uscire fuori da questo stato di “ambiguità” (p. 105), ecco “l’unica riforma di cui ci sarebbe davvero bisogno:una riforma morale”, non quindi abituarsi ai meccanismi di governo (ovvero alle strombazzate di Renzi), perché questi si reggono sul “consenso” (p. 119), occorre insegnare il dissenso “per strappare l’insegnamento a una mera logica di servizi” (p. 121) e sono questi, per Bertoni, i gesti quotidiani per non rimanere intrappolati in un labirinto, e viceversa propendere per un atteggiamento di “responsabilità” (p. 115) e non di rifiuto o distacco. Ma il dito di Bertoni nella piaga universitaria è anche il mio, il vissuto che ha portato molti docenti di valore a emigrare all’estero, specie nelle università americane e inglesi, il bello -oggi- e che non se ne intravede nessuna guarigione. E al termine dell’excursus di questo libro, ecco che la vivace cultura di Bertoni la ritroviamo nel ricorso a figure dell’arte, della letteratura e del cinema, che impreziosiscono e rendono più “affascinante” il testo, anche se più volte ricorda al lettore quella vitalità che abita la cultura e che rischia di essere sempre più spesso soffocata, perché l’università italiana è legata ormai a un’idea contabilizzata e produttiva del tempo e della storia contemporanea.
Carlo Franza