I musei restano chiusi, è vero, per il volere ottuso di un governo  che governa a modo suo. Ma tra le loro mura ci sono decine di mostre in attesa di un pubblico che si spera possa tornare presto a vederle. Qui vi proponiamo la rassegna allestita al Palazzo Barberini e dedicata proprio al ruolo dello spettatore.

Quando la tua mano destra viene toccata, provando sensazioni che discendono nel resto del corpo, essa sta a sua volta toccando. L’osservazione è di Husserl, ma Merleau-Ponty ne derivò l’idea di un’irresistibile reversibilità della sensazione, che fa del corpo al contempo l’oggetto e il soggetto della relazione con cose e persone. Variamente declinata, proprio la reversibilità dello sguardo, la sorprendente reciprocità tra vedere ed essere visti, è tema principale della mostra allestita a Palazzo Barberini fino al 5 aprile 2021, intitolata “L’ora dello spettatore. Come le immagini ci usano”, a cura di Michele Di Monte. Una mostra studiata con grande sensibilità e attenzione agli equilibri tanto formali che iconografici, ma che per le norme sanitarie imposte dalla pandemia non ha potuto aprire al pubblico. Triste circostanza che però non fa che sfidare con un ulteriore interrogativo il paradosso che il curatore propone nella scelta delle opere: il colloquio che esse sono capaci di intrattenere con noi non è forse espressione, come suggeriva Bredekamp nella sua teoria dell’atto iconico, di una loro vita autonoma?

Da Rembrandt a Guercino i dipinti ci guardano, immagini che ci guardano e  ci invitano a oltrepassare una labile soglia. Come fa l’incantevole Ragazza in una cornice di Rembrandt van Rijn (1641) prestata dal Castello Reale di Varsavia: la fonte della luce che ravviva il suo viso accendendo le iridi castane, e che proietta un’ombra soffusa sullo sfondo, è posta alle nostre spalle, creando un’unità ambientale che dà sorprendente illusionismo alle mani della misteriosa interlocutrice appoggiate sul bordo della cornice che da lei ci separa. Così anche nella sensualissima scena di Venere, Marte e Amore di Guercino dalle Gallerie Estensi di Modena (1633): Venere si solleva a sedere sul suo letto e indica proprio te, prediligendoti al suo amante ufficiale, Marte, che sta sopraggiungendo; inchiodato dallosguardo della dea, diventi protagonista di quel pericoloso tradimento e di un’azione che si rovescia miracolosamente al di fuori del dipinto.
Ma il varco può aprirsi anche su un’oscurità inquietante tra il visibile e l’invisibile, e tra l’essere e il non-essere: è ciò che suggerisce ironicamente l’olandese Gerrit Dou, contemporaneo di Rembrandt, nel suo Autoritratto con la tenda dal Rijksmuseum (1650 circa): il pittore si affaccia da dietro una tenda sfogliando un libro illustrato; il suo sguardo si rivolge a noi, mentre le labbra si contraggono intorno alla pipa per trarne una boccata di fumo, facendo brillare la piccola brace. Ci accorgiamo che il nostro interlocutore emerge da un buio d’oltretomba, e che la nicchia in pietra grigia dalla quale ci guarda somiglia a quelle di tanti memento mori della pittura nordica. Il pittore appare come un guardiano della soglia o uno psicagogo in rapporto con altri mondi.

Opere e spettatori. E poi ancora: Tiepolo, Ribera, Vouet, Savoldo, Preti, Lanfranco e altri: questa mostra svela che l’arte consente di superare una soglia percettiva. Nella sua opera postuma Il visibile e l’invisibile (1964), Merleau-Ponty spiega che l’opera d’arte non coincide con un’unità data una volta per tutte; ma alternativamente nasconde e rivela una varietà di scarti obliqui, realtà virtuali, potenzialità. Rapporti latenti che si attivano in virtù della relazione con lo spettatore: le immagini ci usano.

Carlo Franza

 

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