Il poeta friulano che scrive in “bisiàc e tergestino” intona il proprio atto di parola  in un rituale vocalico allineato  in una sequenza ritmica che è propria del suo dialetto, in quella terra di confine che è Gorizia. Un ritmo non solo linguistico, ma tramatura, tessitura e  partitura che si fa anche gestuale, corporale, musicale, dove la “ripetizione”  viene intesa come memorabilità, liturgia e messaggio nella differenza  (…la fassa sensa più nome, la fonda/sóva canson che mai no la se pande…).  Nei suoi messaggi di luogo, tempo e spazio, ruotanti  come “consistenza” di vita,  Ivan Crico trova  un incerto rimbombo, un precario  fuoco che illumina la coscienza creatrice, per tramutarsi  in forma radicalmente orale, silenziosa, dove  la ripetizione articolata  e variabile di illuminazione e fenomeni significativi (timbri vocalici, allitterazioni, addensamenti di pronuncia, respiri, pause di silenzio e altro) trova nell’ordine grammaticale della lingua una temporalità misurabile tipica  della lingua “separata”, dialettale, diversa rispetto  a quella del cosiddetto uso quotidiano e comune. Ho tra le mani il libro di poesie di Ivan Crico, “L’antro siel del mondo”,  (L’altro cielo del mondo) con introduzione di Giorgio Agamben, Collana Gialla Oro, Lietocolle Edizioni, Fallopio-Como, pp.212, 2019; un libro  che ho tenuto con me qualche mese, a farmi buona compagnia, prima di recensirlo,  perché racconta l’universo, il corpo e l’anima di un territorio che è quello d’origine del poeta, ne assapora fino al midollo il suono della lingua di quei luoghi, e la variazione poetica si allunga nei versi con energia aprendo la strada a un diario inimitabile.

Scorre in più versi  la musica della poesia, il luogo in cui la poesia tocca  il linguaggio parlato( Ecco:  Sinìƺe⇄⇆Ceneri   ʃmarida sinìƺa/sparnissada in fra le morte/radiʃe de l’ulìu./ Fogo secret de albissi nèmui./ La suturna angunia cundura./ Ta le rame umede de la vida/la se poƺa ’na tortorela,/la ciapa fià, pìssula/  e débula crïatura/ta’l oro de la luʃe…/Xe de bot sera. /Al bròilo al se deʃlontana/t’un mondo che ’l vol/no éssar./

Pallida cenere/sparsa tra la morte/  radici dell’olivo. /  Fuoco segreto  di bianchi anemoni. / La cupa agonia  non muta./  Sui rami umidi  della vita/  si posa una tortora, / riprende respiro, fragile/  e una piccola creatura/ nell’oro della luce … /E’ quasi sera. / Il giardino si allontana/ in  un mondo che vuole/ non essere).

Nell’introduzione al volume di poesia – che è un vero e proprio saggio-  dell’illustrissimo  filosofo e collega Giorgio Agamben, troviamo queste parole: “ Questa testimonianza è preziosa perché ci ricorda che il poeta in dialetto si situa in qualche modo fra due lingue -una che, pur “molto amata”, sente meno vera e un’altra, più propria, in cui gli sembra che le parole facciano tutt’uno con le cose. È questa sorta di bilinguismo originario -e la complessa relazione fra due lingue che esso implica- che vorremmo provare a comprendere.”

Devo confessare che ho sempre avuto ammirazione per i poeti dialettali e neodialettali, anche profilati nell’accensione bilingue; basti pensare a quel testo del 1972, la silloge santarcangiolese   “i bu” di Tonino Guerra avallato da Contini che vi intravedeva un Pascoli residuale,  a Cesare Zavattini  e il suo “ Stricarm’in  d’na parola” in dialetto luzzarese, a Giacomo Noventa con il libro “Versi e poesie” del ’56,  al poeta gradese Biagio Marin incorniciato da  Massimo Cacciari  perché la poesia dialettale  era per lui “puro mundus imaginalis”,  a  “Poesia a Casarsa” di  Pierpaolo Pasolini  nella  cui scrittura in versi muove un’oralità multiforme  e gestuale, corale e umoristica;  e ancora l’anconetano Franco Scataglini(1930-1994), a Franco Loi, ad Andrea Zanzotto, a Virgilio Giotti, e altri ancora. Ora il  libro di  Ivan Crico  “L’antro siel del mondo” (L’altro cielo del mondo)  mette in luce  i suoni del parlare materno, la poesia che si mostra con levità,  l’arte sopraffina  di iterazioni, allitterazioni, pseudo-rime e rime vere e proprie, l’accensione post-simbolista che muove dal profondo biologico e storico del poeta, dal luogo in  cui oscuramente-oracolarmente parla, tanto da farlo confessare: “ Il suono di quei termini era un tutt’uno con le cose che definivano, per cui leggevo e, all’istante, vedevo davanti a me rogge, salici, argini come in una fotografia incredibilmente nitida. Questo fece sì che la mia parlata nativa, per lungo tempo snobbata, acquistasse all’improvviso ai miei occhi un prestigio, fino a qualche istante prima, del tutto inimmaginabile”. Ivan Crico si lascia leggere  con maniere e stilizzazioni, apre il suo libro a nuove dimensioni ed eleganze, in cui la realtà lineare del diario lirico lo porta  a evidenziare una realtà  che si apre e mira al fondo delle cose  e di sé, per mostrare un’espressività sottile in un recupero delle origini. Il suo è un viaggio nel tempo  e al di là del tempo, proprio in quel territorio di confine, in cui  transitano stagioni vissute in quello splendido groviglio  di suoni e luci coscienziali,  e immagini  coaugulate fra riflessione e invenzione,   e una   natura con i suoi ritmi intensi e sospesi, e infine  una qualità della vita intesa  nella sua pienezza  di affetti, amicizie, convivialità.

Segni e simboli, pensieri e immagini, lingua poetica cantabile e melodica, in cui nomi e luoghi  vivono uno squisito  artigianato minimalista e post-impressionista;  una poesia quella di  Ivan Crico  che  ha trovato   negli esiti di una tensione  più ferma nel suo bilingismo, la dimensione del vivere  che la nutre  e la racchiude per sempre, e  tocca tutte le zone alte del libro.

Biografia. Ivan Crico è nato a Gorizia il 1 novembre 1968, ma fin dalla nascita ha vissuto a Pieris, presso le foci del fiume Isonzo. Dal 2006 vive nell’antico borgo rurale di Tapogliano. Si dedica allo studio della pittura fin da giovanissimo, laureandosi all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Attualmente insegna all’Accademia di Belle Arti di Udine. Parallelamente all’attività artistica, dal 1992 ha iniziato a collaborare con gli amici poeti Amedeo Giacomini, Gian Mario Villalta, Mario Benedetti e Pierluigi Cappello (con cui ha ideato la collana di poesia la “Barca di Babele”). Scrive in lingua e nell’arcaico idioma veneto bisiàc.Oltre ai libri citati nella nota bibliografica a corredo del volume, si segnala la raffinata versione integrale in bisiàc de Al cant dei Canti (Il Cantico dei Cantici), con prefazione del linguista Michele Cortellazzo, edito nel 2018 dalla ACB; e nel 2019 per Quodlibet, su invito di Giorgio Agamben, la traduzione poetica dell’opera di Pier Paolo Pasolini I Turcs tal Friùl.Nel 1999 con l’antropologo Gian Carlo Gri ed altri studiosi, ha inoltre studiato il fenomeno dei benandanti nel Friuli goriziano in un saggio apparso nel volume “Di prodigi segreti”, edito dall’Istituto Gasparini. Della sua poesia -pubblicata sulle maggiori riviste italiane e all’estero -si sono occupati diversi studiosi italiani come, tra gli altri, Giorgio Agamben, Antonella Anedda, Mario Benedetti, Filippo Betto, Luigi Bressan, Franco Brevini, Pericle Camuffo, Pierluigi Cappello, Elenio Cicchini, Mariuccia Coretti, Maurizio Casagrande, Manuel Cohen, Milo De Angelis, Roberto De Denaro, GianniD’Elia, Anna De Simone, Nicoletta Di Vita, Bianca Dorato, Giovanni Fierro, Amedeo Giacomini, Hans Kitzmüller, Franco Loi, Francesco Marotta, Pavle Merkù, Tino Sangiglio, Edda Serra, Elio Tavilla, Francesco Tomada, Giovanni Tesio, Matteo Vercesi, Gian Mario Villalta.

Carlo Franza  

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